Editoriale

Quante facce ha il no all’austerity

Quante facce ha il no all’austerityBruxelles, il parlamento europeo – Reuters

Dentro il voto La destra europea sale al 25% e fa intravedere i fantasmi dei nazionalismi del ’900. Resiste e cresce anche la sinistra critica. La strada della Lista Tsipras è lunga ma è una una buona chance, forse l’ultima

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 30 maggio 2014

Il messaggio uscito dalle urne è come lo starnazzare delle oche in Campidoglio. Che però salvarono Roma perché il loro allarme venne raccolto. Lo sarà anche questo? E di quale allarme si tratta? Possiamo ripartire le scelte dell’elettorato in due campi. Nel primo sta chi ha scelto uno dei partiti sostenitori delle politiche di austerity. Per quanto diversi (un elettore dell’Ump francese non ha molto in comune con chi vota Pd), si può dire che si è trattato di un’espressione di consenso.

Il messaggio uscito dalle urne è come lo starnazzare delle oche in Campidoglio. Che però salvarono Roma perché il loro allarme venne raccolto. Lo sarà anche questo? E di quale allarme si tratta? Possiamo ripartire le scelte dell’elettorato in due campi. Nel primo sta chi ha scelto uno dei partiti sostenitori delle politiche di austerity. Per quanto diversi (un elettore dell’Ump francese non ha molto in comune con chi vota Pd), si può dire che si è trattato di un’espressione di consenso.

O di speranza nella possibilità che le forze politiche che hanno esacerbato la crisi col «rigore» cambino rotta, decidendosi finalmente per politiche espansive. Dall’altra parte stanno quanti hanno variamente manifestato un dissenso, non andando a votare o scegliendo una formazione politica avversa alle scelte della Commissione uscente.

Si potrebbe obiettare che è azzardato disquisire sulle intenzioni di chi si astiene. Ma, a parte il fatto che non votare implica, di norma, un elevato grado di disaffezione, l’astensionismo in queste europee presenta qualche specificità. Il ventaglio delle opzioni possibili era stato rappresentato dai media in termini binari: o si sceglieva un partito «europeista» (di centrodestra o centrosinistra), oppure ci si volgeva a una forza «euroscettica», finendo fatalmente tra le braccia dei famigerati «populisti». È probabile che tale drammatizzazione abbia scoraggiato chi non si riconosce in nessuna delle due posizioni: chi non voleva rafforzare la marea populista, ma nemmeno intendeva sostenere l’establishment comunitario, con tutti suoi annessi e connessi. Perciò non è una forzatura annoverare tra i critici dell’austerità neoliberista la maggior parte di quanti si sono astenuti.

Se si assume questa rappresentazione, emerge un primo dato rilevante. L’insieme delle forze «europeiste» è sostenuto da un risicato 30-35% dell’elettorato, contro un 65-70% di critici, con picchi in Francia, Gran Bretagna, Grecia e in quasi tutti i paesi dell’est (qui l’astensionismo viaggia tra il 75 e l’80%), già passati dall’entusiasmo alla disillusione. Il fatto che l’insieme di quanti a qualsiasi titolo avversano l’austerity sia eterogeneo non toglie che questa (schiacciante) maggioranza revochi in dubbio la legittimità di una leadership che meditasse di continuare a taglieggiare i popoli europei con devastanti politiche di «risanamento».

Altri elementi emergono se consideriamo i diversi modi di porsi criticamente nei confronti dell’Europa. In questo caso l’elettorato risulta tripartito. A fronte di chi «acconsente» (votando per Socialisti, Popolari o Liberali), c’è da una parte l’elettorato della destra euroscettica, dall’altra quello della sinistra di alternativa, critica ma non anti-europea. Quali indicazioni emergono da quest’altra prospettiva?

Intanto, il dato inquietante della crescita forte, per non dire travolgente, della destra. Che supera di slancio il 25% degli eletti (erano, nel 2009, il 15,8) e che potrà contare, nel nuovo parlamento, su 189 seggi (contro i 121 di cinque anni fa). Ci si può consolare della frammentazione di questa galassia. Difficilmente i conservatori anti-europei (tra cui spicca l’Ukip dello xenofobo Farage) si uniranno alle forze ancora più radicali (dal Front national ai nazisti della Npd e di Alba dorata, passando per lo Jobbik ungherese, il People party danese, la Pvv di Wilders, gli eredi di Haider della Fpö, il Vlaams belang belga e la Lega nord), scioviniste e razziste. Il travaglio del M5S in cerca di alleanze attesta l’eterogeneità di questo arcipelago. Ma il dato politico resta intatto.

È difficile non vedere che caratterizza quest’ampio settore dell’elettorato europeo un tratto comune, costituito dal combinato tra il risentimento verso l’«alto» (le élites dirigenti) e l’«altro» (lo straniero, l’euro, la stessa Ue) e una pulsione a rinchiudersi entro i confini nazionali. Un mix che riproduce, aggiornandola, la sottocultura del nazionalismo aggressivo che nel ’900 contagiò gran parte dell’Europa nel segno della violenza e dell’odio. Il fatto che nessuno sia al momento in grado di egemonizzare questa massa è una fortuna, ma non ci si dovrebbe illudere. In molti casi si tratta di forze già capaci di condizionare i governi nazionali. E il risorgere di pulsioni nazionaliste e razziste a settant’anni dall’ultima guerra mondiale non può non preoccupare chi sa quanto lento sia il ritmo della storia, quanto il passato tardi a passare per davvero.

La distinzione tra critici di destra e di sinistra dice però anche che resiste e, pur di poco, cresce (dal 4,6 al 5,6%, soprattutto grazie a Syriza) la componente critica di sinistra, mossa non da un generico anti-europeismo, ma dalla domanda di un deciso cambiamento delle politiche economiche e sociali e della architettura istituzionale della Ue. Per quel che riguarda il nostro paese, tiriamo un sospiro di sollievo per il superamento dello sbarramento da parte della lista Tsipras, ottenuto malgrado il silenzio dei mezzi d’informazione. Benché essere tornati a Strasburgo per pochi decimali tradisca persistenti difficoltà, si tratta di un risultato importante e non scontato. Che corona l’impegno di chi ha saputo ridare fiducia a un elettorato tentato dalla rassegnazione battendosi contro le reciproche gelosie dei gruppi dirigenti (il che però non giustifica una retorica della «società civile» e una demonizzazione dei partiti che non hanno proprio nulla di sinistra). Detto questo, non bisogna rimuovere i problemi.

Sarebbe sciocco negare che la strada da percorrere è lunga, dato che, quanto a frammentazione, la sinistra europea si trova in una situazione speculare alla destra. Finora un po’ dappertutto hanno prevalso i patriottismi di partito e si sono privilegiate le diverse appartenenze. In un’Europa flagellata dalla crisi e minacciata dagli spettri del suo passato peggiore sarebbe dissennato perseverare in tale stato di cose, che ha reso la sinistra ininfluente. Il tempo che ci separa dalle elezioni politiche (e in Italia già dalle prossime regionali) dirà se la sinistra europea avrà saputo meritarsi questa chance, che potrebbe davvero essere l’ultima.

Rimane, infine, un quesito: che cosa faranno le forze che hanno raccolto i maggiori consensi? C’è il rischio reale che la marea nazionalista e xenofoba intercetti il malessere dei ceti medi e della stessa classe lavoratrice, sino a sommergerci. Perché ciò avvenga basterebbe che le classi dirigenti, soprattutto nei principali paesi, replicassero le scelte sin qui assunte, nutrendo con ciò, nei settori sociali meno protetti, la sensazione di essere abbandonati alla precarietà e all’indigenza nel nome di una comunità che premia sempre e soltanto «gli altri». Purtroppo, stando ai precedenti e alle prime notizie (già si ventila la costituzione di una «grande coalizione» Ppe-Pse-Liberali sul modello tedesco), è probabile che le cose vadano proprio così. Che ci si dimentichi allegramente della minaccia e che di occupazione ed equità si torni a parlare giusto nei comizi.

Ma la speranza è l’ultima a morire. Non possiamo ancora escludere che le forze «europeiste» in teoria più avanzate (Socialisti e Verdi) prendano sul serio l’allarme risuonato domenica scorsa. Rivedano in profondità le politiche che hanno dato fiato alle sirene nazionaliste, e aprano finalmente un dialogo con la sinistra, finora strumentalmente dipinta come un interlocutore impossibile. Diversamente, esse si assumerebbero una gravissima responsabilità. È vero, hanno ottenuto un risultato discreto e possono imporre ai Popolari di farle entrare nella stanza dei bottoni. Ma la politica non è l’aritmetica, e ignorare che la gran parte dell’elettorato esige cambiamenti radicali varrebbe a spingere l’Europa verso il baratro. Le oche avrebbero allora starnazzato inutilmente, mostrando che non c’è allarme che basti per chi ha deciso di non voler sentire.

 

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