Editoriale

Quattro uomini in barca

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Il tempo è più che galantuomo. Alla fine illumina la scena, tanto da rendere evidente quello che, pur essendo già chiaro, è stato goffamente mascherato. Parliamo dello scontro in atto […]

Pubblicato quasi 5 anni faEdizione del 21 dicembre 2019

Il tempo è più che galantuomo. Alla fine illumina la scena, tanto da rendere evidente quello che, pur essendo già chiaro, è stato goffamente mascherato. Parliamo dello scontro in atto tra gli esponenti della ex coalizione di governo giallo-verde (cioè giallo-bruna), M5s e Lega. Contrassegnata dal protagonismo del «capitano» che voleva fermare «l’invasione», il signor «voglio i pieni poteri» Matteo Salvini, sui sequestri in mare di esseri umani, i profughi in fuga da guerre e miserie che ci riguardano.

Sequestri in mare decisi volta a volta o dalla compagine di governo tutta – dal Consiglio dei ministri – oppure d’autorità, dal solo ministro degli Interni. Siamo alla nemesi. Perché il conflitto esplode proprio nei giorni in cui la sequestrata Sea Watch 3 può tornare nel Mediterraneo a salvare vite umane, con ordinanza del Tribunale civile di Palermo dopo ricorso della Ong tedesca; e mentre ieri la nave Ocean Viking, di Sos Mediterranée e Msf, ha salvato dal naufragio sulle coste libiche 112 migranti.

Lo scontro tra ex alleati di governo, di sostanza e verbale, si rappresenta come una sceneggiatura dell’arroganza del potere. Luigi Di Maio, forte non a caso del rituale pellegrinaggio da neo-ministro degli esteri nel luogo del misfatto libico, quell’improbabile «dopoguerra» a Tripoli e a Bengasi per il quale portiamo dal 2011 responsabilità criminali, dà l’autorizzazione a procedere contro Salvini sotto accusa della magistratura per la vicenda della nave Gregoretti.

E prende le distanze dalla chiamata di correo dell’ex inquilino del Viminale che insiste a dire che tutto era stato deciso «insieme», mostra le carte che lo proverebbero e fa addirittura ricorso a Mia Martini per definire il ministro pentastellato «piccolo uomo». Che si difende, distinguendo il sequestro della nave Gregoretti, decisa dal solo Salvini ma giustificando il blocco in mare per la nave Diciotti. Dichiarando: «Diciotti atto di governo, Gregoretti propaganda».

Dal nostro punto di vista, c’è davvero poco da distinguere. Le due operazioni di governo, tutte e due in applicazione pubblicitaria del famigerato “Decreto sicurezza bis”, non si differenziano infatti nemmeno per la natura delle navi sequestrate, la Gregoretti e la Diciotti sono entrambe militari, ma solo per la specifica autorità esercitata, se collegiale o individuale, che ha deciso teatralmente le due operazioni: la prima per premere sul governo e sulla coalizione, mostrando i muscoli per stabilire gerarchie; la seconda per insistere sulla Commissione Ue e avere così la pur giusta «redistribuzione». Ma per entrambe ci troviamo di fronte sempre ad un uso strumentale del potere. A danno delle vite umane di disperati che, invece di essere prontamente soccorsi sono stati tenuti come ostaggi in mare aperto, mentre veniva scatenata la guerra alle Ong e alle navi di soccorso impegnate a salvare quelle vite. Nei due casi diritto internazionale, solidarietà e legge del mare, sono stati fatti a pezzi nello stesso modo.

Il presidente Conte e Di Maio, certo ora impegnati con diverso stile nella nuova compagine giallo-rossa, non appaiono davvero molto diversi da Matteo Salvini in questa storia appena trascorsa ma ancora così interna all’ambiguità che restituisce autorità ogni volta per i soccorsi in mare alla cosiddetta «guardia costiera libica». Dovrebbero prendere atto della deriva democratica e della vergogna rappresentata dai “Decreti sicurezza bis” che hanno promulgato insieme a Salvini e cancellarli una volta per tutte. La loro responsabilità e quella dei governi Ue, è stata bene denunciata in questi giorni dalle Nazioni unite e non riguarda solo i sequestri in mare, ma i respingimenti forzati e i naufragi che hanno fatto del Mediterraneo e dei deserti libici e sahariani un cimitero ininterrotto di decine migliaia di vittime.

Tre uomini in barca, verrebbe da dire, parafrasando il titolo dell’esilarante romanzo di Jerome K. Jerome. Per non dire che sulla barca di questa sventurata avventura non possiamo non far salire anche l’ex ministro Minniti, vero apripista della delega all’«umanità» delle milizie libiche della vita di migliaia di disperati. Quattro uomini in barca, dunque. Mentre già vacillano i numeri – l’ex solidale Faraone di Italia Viva già si smarca – nella giunta per l’autorizzazione a procedere contro Matteo Salvini che la farà franca anche stavolta. Nel rimpallo di omertà e scarica barile di responsabilità, ecco che sullo sfondo compare una memoria incancellabile, immobile come un testimone del teatrino in corso: quella dell’affondamento, nel 1997, della Kater I Rades, una carretta del mare stracarica di profughi in fuga dalla guerra civile albanese – 108 le vittime -, speronata da una nave militare italiana impegnata in un criminale blocco navale governativo.

 

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