Editoriale

Riforme, l’alibi dei guitti

Ai bambini restii ad addormentarsi i buoni genitori raccontano favole, o magari piccole bugie, dalla befana che porta regali se dormono all’uomo nero che viene a rapirli in caso contrario. […]

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 22 aprile 2015

Ai bambini restii ad addormentarsi i buoni genitori raccontano favole, o magari piccole bugie, dalla befana che porta regali se dormono all’uomo nero che viene a rapirli in caso contrario. Una versione fantastica del bastone e della carota. È quel che fa il governo con i dissidenti sull’Italicum, quando minaccia ancora di mettere la fiducia, o lascia balenare uno scambio con la riforma del senato che si potrebbe rivedere. Vie impraticabili, del tutto o in parte.
Per la questione di fiducia sull’Italicum riassumo quel che ho già scritto su queste pagine.

Il regolamento della Camera include la legge elettorale tra le materie per cui il voto è segreto a richiesta. La Presidenza dell’Assemblea non ha alcun potere discrezionale in proposito e deve concedere il voto segreto, se richiesto nelle materie elencate. Il regolamento dispone altresì che al governo non è consentito porre la questione di fiducia quando è prescritto il voto segreto. Ne segue una contraddizione insanabile tra la richiesta di voto segreto e la fiducia sulla legge elettorale. Posto che il voto segreto è previsto a tutela del parlamento, delle minoranze e dei singoli parlamentari contro il governo e la volontà maggioritaria, la contraddizione deve sciogliersi a favore del voto segreto con l’inammissibilità della fiducia.
La minaccia di fiducia è il bastone, ovvero la favola dell’uomo nero. Ora la carota. La riforma costituzionale è al senato, ancora in prima deliberazione. Ma le parti riguardanti la composizione e la natura non elettiva del senato sono state già approvate nell’identico testo, dal senato l’8 agosto 2014, e dalla Camera il 10 marzo 2015.

Queste parti sono non più modificabili. Per l’articolo 104 del regolamento del Ssenato «nuovi emendamenti possono essere presi in considerazione solo se si trovino in diretta correlazione con gli emendamenti introdotti dalla Camera». Un lontano precedente del 1993 sulla riforma dell’articolo 68 della Costituzione potrebbe forse essere inteso in modo parzialmente diverso, ma è piuttosto incerto e comunque troppo poco nell’odierno contesto. Ci piace piuttosto ricordare che di fronte alla controversa aggiunta di un comma, il ministro Barile – eminente costituzionalista – non espresse in Aula per il governo alcun parere, esulando la legge costituzionale dal potere di indirizzo politico (22 luglio 1993). Parlò quindi a titolo personale. Altri tempi, anche più difficili di oggi, ma migliori. In ogni caso, quel precedente probabilmente non servirebbe a ripristinare la natura elettiva. L’immodificabilità rimarrà anche in seconda deliberazione, e dunque il senato-dopolavoro non elettivo è già consolidato.
Forse, si potrebbe ancora espungere qualcosa che più grida vendetta, come la partecipazione di un siffatto senato alla revisione della Costituzione. O snellire un procedimento legislativo quanto mai farraginoso. Mentre appare fantasiosa l’ipotesi di far slittare gli effetti della riforma a una legislatura successiva a quella prossima. Tanto correre per un’entrata in vigore prevedibilmente nel 2023?
Questo per la carota. Dunque, il chiacchiericcio politico cui assistiamo in questi giorni è largamente una rappresentazione teatrale. A meno di vedere nel parlamento un’assemblea studentesca autogestita, i regolamenti e le prassi ci dicono quel che si può o non si può fare. I protagonisti lo sanno, e dobbiamo allora ritenere che ambiguità e confusione siano volute o tollerate. Mentre sarebbe bene escludere dalla discussione le vie impraticabili, mettendo in chiaro le scelte e le relative responsabilità.

Nel tormentone infinito del Pd non è facile capire l’interesse perseguito. Renzi subisce una erosione di consensi, e l’iniziale impeto giovanile va assumendo l’aspetto di una testarda arroganza. La sua palese voglia di schiacciare i dissidenti può fargli perdere a sinistra – magari nel non-voto – il sostegno che lo metterebbe in sicuro vantaggio rispetto al centrodestra. L’egemonia del suo vagheggiato partito della nazione dipende poi anche da un centro moderato che a fronte di una sua debolezza non esiterebbe a passare all’avversario. Cresce il rischio che la camicia di forza costruita sul paese con la riforma costituzionale e quella elettorale al fine di cementarsi nel potere sia invece strumento della sua sconfitta. Quanto ai variegati dissidenti Pd, se anche sopravvivessero alle liste di proscrizione nelle prossime elezioni, chi li voterebbe dopo una dimostrazione di totale inconcludenza? Potrebbero mai chiedere consensi biasimando i cattivi? Probabilmente scomparirebbero tutti, salvo una manciata di capilista graziosamente concessi dal padrone a una specie protetta in via di estinzione. Triste destino per quel che fu un’armata.
La confusione è grande. Sarebbe meglio per tutti evitare trattative politiche virtuali e senza oggetto. A tal fine, le Presidenze delle due Assemblee, cui spetta garantire l’applicazione corretta delle regole, potrebbero per le vie opportune preavvisare gli attori di quel che sarà il copione. Per il resto, abbiamo già avuto troppe forzature e violazioni della legalità parlamentare. È quel che succede quando non più la salus populi suprema lex, come diceva Cicerone, ma la insignificante fortuna di guitti in un teatrino.

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