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Rovesciate, sponsor, film: era la modernità, di un secolo fa
Sport Pelé era la modernità, di un secolo fa. È l’immagine di un tempo fatto di paure e pensieri verso il basso. Era stacchi di testa, colori, cravatte stonate
Pelé vince la coppa del mondo di Messico 70 – foto Ap
Sport Pelé era la modernità, di un secolo fa. È l’immagine di un tempo fatto di paure e pensieri verso il basso. Era stacchi di testa, colori, cravatte stonate
Pubblicato quasi 2 anni faEdizione del 30 dicembre 2022
Finisce qui, ma forse no. Se n’è andato Pelé, il Re, O Rei, con la i normale, perché la sua lingua era il portoghese. Anzi, la sua lingua era universale come il gioco del pallone. Se n’è andato alla fine di un viale del tramonto che sembrava infinito, aveva 82 anni e una figlia che lo ha vegliato fino all’ora più buia. Se n’è andato il più grande, anche se nella storia del pallone certe classifiche sono pericolose come uno sciame di calabroni.
Una cosa, però, è sicura. Pelé era la modernità, di un secolo fa. È l’immagine di un tempo fatto di paure e pensieri verso il basso. Era stacchi di testa, colori, cravatte stonate. La pubblicità della carta di credito volle lui. Su un completo panna gli cucirono uno stemma grande come un continente: MasterCard. Sponsorizzazione sproporzionata quanto efficace. Adesso i colori sono il buio, come gli ultimi anni della sua meravigliosa esistenza, quando Pelé era il buio in una stanza. Per tutta la metà del secolo scorso è stato l’antidoto alla malinconia. Riuscì a fare praticamente tutto, la sua Ginga divenne un film, in un altro film, Fuga per la Vittoria, si dimostrò pure un grande attore. Ah, altra cosa eccezionale? Nel 1969 fece qualcosa che a Genova non si ricordava: mise insieme i giocatori di Genoa e Sampdoria, li sfidò sul prato del Ferraris con il suo Santos. E li sconfisse 7-1.
Pelé era la gioia, che come sempre accade nella vita si trasformò in malinconia. Per capire che significa bisogna aspettare ancora qualche curva. La storia della sua patacca sulla giacca, l’immagine della sua rovesciata in maglia Santos stampata su una carta di credito, non sono solo curiosità. Arrivarono una ventina di anni dopo quel 1950, quando mister Frank McNamara si accorse di aver dimenticato a casa il denaro per pagare il ristorante: per evitare che lo sgradevole episodio di ripetesse si inventò la Diners. Poi le idee corrono e arriva Pelé. Lui non è solo una réclame tra mille altre: è l’idea capovolta come una rovesciata, racconta che la felicità non ha prezzo, si può anche prendere a prezzo. È una grande bolla e dentro c’è anche O Rei.
Sono immagini, mondi destinati a scomparire: Best e Cruijff erano la contestazione, Maradona la rivoluzione, Pelé il Potere. Poi la bolla può anche esplodere e l’icona moderna di un secolo che non c’è più viene avvolto dalla depressione. È una parola moderna, ma non tutti sanno pronunciarla. La storia è questa e la raccontò Edson Cholbi Nascimento, per tutti Edinho, il figlio di Edson Arantes do Nascimento. Che, intervistato da Globe Esporte, rivelò: «Mio papà ė in imbarazzo, non vuole essere visto, non vuole fare praticamente niente che implichi uscire di casa». Perché O Rei, la Perla nera o chiamatelo come diavolo vi pare, era pur sempre un uomo. Perché il calciatore perfetto, l’unico capace di vincere tre volte il campionato del Mondo, di segnare 1.281 gol in venti anni di carriera, era O Rei e dunque umano, come ogni re.
In quei giorni di tre estati fa, camminando verso la notte raccontò: «Ho giorni buoni e giorni cattivi e questo è normale per le persone della mia età. Non ho paura, sono determinato, fiducioso in quello che faccio». Forse le parole più belle, sicuramente le più sincere del re di Svezia 1958 e Cile 1962 e Messico 1970.
Non ci sono più stadi e gol e lustrini e réclame, niente più bandiere da sventolare, maglie da indossare, del Brasile, del Santos dei New York, Pelé che sembrava perfetto è solo un uomo. E come tutti gli uomini destinato a dirci addio. Allora grazie di tutto, uomo che il pallone fece diventare re.
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