Editoriale

Se ai capitani manca il coraggio

Se ai capitani manca il coraggioL'Ilva di Taranto – Aleandro Biagianti

Analisi Le crisi d’impresa e il ruolo della Cassa Depositi e Prestiti. Tre partite aperte in un Paese senza politica industriale. Un’operazione tipo Alitalia: con la creazione di una bad company pubblica da un lato e di una nuova società «pulita» dall’altro. È indispensabile che vengano riviste le modalità di governo della Cdp, oggi a gestione privatistica e al servizio di interessi poco trasparenti

Pubblicato quasi 10 anni faEdizione del 2 dicembre 2014

Sembra da tempo che il capitale italiano non abbia più la voglia, la capacità e le risorse per farsi avanti quando un’impresa del nostro paese è in difficoltà.

Negli ultimi anni le situazioni di crisi di gruppi di rilevanti dimensioni sono state molto numerose. Secondo un’analisi recente (vedi l’articolo di F.Fubini su Affari & Finanza di Repubblica del 24 novembre), delle 28 maggiori cessioni di aziende effettuate dal 2012 a oggi, in 18 casi il compratore era straniero, cinque hanno visto come protagonista la Cassa Depositi e Prestiti e solo in quattro casi c’è stato un intervento da parte di capitalisti nostrani. Tutto questo non è certo di buon auspicio, dal momento che le partite per qualche ragione da sistemare sono ancora numerose. Ci concentriamo su Ilva, Monte dei Paschi e Saipem.

Ilva
La partita si trascina da molto tempo, a causa soprattutto dei governi imbelli, distratti, o complici, mentre i nodi da sciogliere sono tanti. Alle difficoltà oggettive della questione, su cui gravano anche decisioni molto incerte della magistratura, si aggiunge, oltre alla confusione di propositi che attanaglia i decisori pubblici, anche la mancanza di risorse e di adeguato potere di mercato da parte di eventuali imprese private nazionali. La situazione è comunque ormai insostenibile; tra l’altro, l’azienda perde ancora qualche decina di milioni di euro al mese e le liquidità sembrano ormai esaurite.
Giacciono, da un po’ di tempo, due proposte di soluzione, al momento, del tutto inaccettabili. La prima fa riferimento alla cordata con a capo l’indiana Arcelor Mittal, nella quale sembra inserita anche la Marcegaglia, ma solo per dare qualche traccia di italianità a una soluzione che, viste le risorse in gioco, sarebbe nella sostanza solo straniera.

La Arcelor Mittal ha già diversi impianti in Europa, continente che soffre di una larga capacità produttiva inutilizzata e la sua volontà di acquisizione sembra dettata soprattutto dal desiderio di tenere lontani dei concorrenti; essa comporterebbe, plausibilmente, un ridimensionamento dell’impianto di Taranto. Gli indiani chiedono che il risanamento possa conseguirsi spendendo meno del previsto per la protezione ambientale. Domandano poi di essere esentati da ogni responsabilità sui conflitti giudiziari in atto, partita al momento inestricabile. E non vogliono accollarsi i debiti passati.

Un’altra cordata, tutta italiana, sarebbe composta dal gruppo Arvedi e dalla Cassa Depositi e Prestiti. Ma Arvedi non sembra avere i soldi e la capacità di mercato per reggere la partita, mentre si parla, ahinoi, anche del coinvolgimento della famiglia Riva.

Il governo appare ora, improvvisamente, disponibile a farsi carico dei guai dell’azienda, cosa che a prima vista sembra positiva; essa verrebbe risanata e poi restituirla ai privati. Il progetto appare ancora non del tutto chiaro per molti aspetti, ma il timore, nel nostro caso certamente fondato, è che si porti avanti un’operazione tipo Alitalia. Il settore pubblico si farebbe carico dei guai dell’azienda – e degli esborsi relativi. Si avrebbe, da una parte, una bad company pubblica, mentre si avvierebbe, dall’altra, una nuova società «pulita», in cui la Cassa Depositi e Prestiti sarebbe protagonista; l’Ilva, dopo il risanamento, verrebbe poi restituita ai privati, plausibilmente a vil prezzo.

I dubbi tecnici sull’operazione restano molti: dove prenderebbe i soldi (diversi miliardi) il governo? E Bruxelles non avrebbe nulla da dire al riguardo? Ma sappiamo che la fantasia dei nostri bravi politici e dei giuristi che li circondano è infinita.

Saipem e Monte dei Paschi

Anche per queste due imprese si discute di un passaggio di proprietà. Si tratta di altri due importanti pezzi del nostro sistema economico. Per Saipem il 2015 dovrebbe essere l’anno della privatizzazione. La società appare molto ambita e stanno accorrendo al suo capezzale i paesi arabi, società russe, cinesi, norvegesi e chissà di che altro paese. Manca del tutto l’interesse di gruppi italiani.

Per quanto riguarda il Monte dei Paschi, dal momento che anche in questo caso latitano le candidature nazionali, sembra si stiano mettendo a punto diverse cordate, una prevalentemente anglosassone, un’altra con capitali dai paesi emergenti. In realtà, se la banca fosse invece acquisita in qualche forma dal settore pubblico, essa potrebbe essere, tra l’altro, utilizzata per contribuire ad avviare una nuova politica del credito nel nostro paese.

Cassa Depositi e Prestiti

I tre casi sopra delineati, pur con tutte le difficoltà, potrebbero essere l’occasione per il governo di impostare una nuova politica di intervento industriale attivo. Sembra opportuno che nella sistemazione delle tre partite intervenga in maniera importante e permanente la Cassa Depositi e Prestiti. Essa dovrebbe acquisire un pacchetto di capitale dei tre gruppi tale da vederla protagonista della loro ristrutturazione industriale e societaria; questo, insieme all’inserimento nei tre casi di gruppi esteri che dovrebbero apportare mercati, nonché risorse finanziarie e organizzative. Sarebbe certo auspicabile anche la presenza di imprese private nazionali, ma si dubita che ce ne siano di disponibili; i loro capitali servono tutti, al momento, a tenere pieni i forzieri delle banche lussemburghesi e di quelle delle isole Cayman.

Con tali interventi la Cassa Depositi e Prestiti farebbe un importante salto dimensionale e acquisirebbe un ruolo molto accresciuto nel nostro paese. Ma, ovviamente, è indispensabile che vengano riviste profondamente le modalità di governo di tale organismo, oggi a gestione privatistica e al servizio di interessi poco trasparenti. La pubblicizzazione e la democratizzazione dell’ente è una necessità impellente.

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