Si chiama ageismo, è la forma del razzismo contro i vecchi
Ai tempi della crisi Con la grande depressione chi è anziano diventa il capro espiatorio delle politiche di austerità
Ai tempi della crisi Con la grande depressione chi è anziano diventa il capro espiatorio delle politiche di austerità
Il traghetto carico di turisti è giunto nel porto e sta ormeggiando. I passeggeri si affollano lungo la stretta scalinata che conduce ai vari livelli del garage. La discesa non è facile data la quantità di adulti, bambini, carrozzine, borse…Nella calca si fa strada in senso opposto un giovane corpulento. Ha imboccato un piano che non è quello dove ha parcheggiato l’auto e ora risale veloce sgomitando. Una donna esile, intorno ai sessant’anni ben portati, esclama: «Percorre le scale in senso inverso e pretende pure di farsi strada in questo modo!». Il giovane le urla contro, in italiano: «Stia zitta lei che è un’abusiva: i vecchi devono starsene a casa!». La donna in questione si sistema col marito in un residence, in un’area tra le meno frequentate dai turisti. Come vicini, divisi da un vetro sottile che taglia la terrazza comune, hanno una coppia francese sui trent’anni, con due bambine. Non sono loro a infastidirli ma la madre, che ha l’abitudine di gridare e trascinare rumorosamente le sedie in plastica. Un mattino la signora le chiede gentilmente, in buon francese, se per favore potrebbe sollevarle, le sedie, invece che trascinarle. In presenza delle piccole, lei grida con voce rabbiosa: «Se non le sta bene questo residence, se ne ritorni nella casa di riposo!».
La sala cinematografica è quasi vuota: si proietta un film di qualità. Oltre loro due, ci sono solo un’altra coppia e tre giovani che sembrano capitati lì per errore: durante la proiezione non fanno che sbuffare o parlare. Un paio di volte la donna e il marito li pregano di tacere. Prima che scorrano i titoli di coda, si alzano vociando e passano giusto davanti a loro. I due protestano che il film non è finito e che vorrebbero guardarli, i titoli di coda. Sconcertati e stizziti, i giovani replicano in malo modo. La coppia cerca di opporre qualche argomento razionale. Uno dei tre grida: «Voi non sapete chi sono io: mio padre è colonnello dei carabinieri!». La signora e il marito scoppiano in una risata. Il figlio del colonnello reagisce urlando con tutto il fiato: “Siete due vecchi di merda!».
Queste spiacevolezze, riportate fedelmente, sono accadute a una stessa coppia (chi siano è irrilevante) in un arco di tempo breve. Ora, comparate le frasi insultanti con espressioni analoghe, non rare, quali «Sta’ zitto tu che sei extracomunitario: gli africani devono restarsene nella giungla!», «Se non vi sta bene ‘sta baracca, tornatevene a casa vostra!», «Siete solo due negri di merda!». Accostatele, se volete, a locuzioni del tipo: «Fuori tutte le donne dal Parlamento, tutte a casa a fare la calza!» (così un lettore del quotidiano Il Giornale) e ad altre ricavabili dall’immenso repertorio sessista. Vi apparirà chiaro che la stigmatizzazione dei “vecchi” usa dispositivi analoghi a quelli del razzismo e del sessismo: soprattutto stereotipi generalizzanti e caricaturali, che inducono a cogliere non individui e singolarità, ma categorie indistinte, oltre tutto costruite, rappresentate, percepite secondo cliché svalorizzanti.
E’ per assonanza e analogia con razzismo e sessismo che nel 1969 Rober Butler, psichiatra e geriatra, coniò il termine ageism (da age: età), che trent’anni dopo sarebbe stato accolto nella lingua francese come âgisme e ben più tardi in quella italiana come ageismo: parola e concetto da noi poco consueti. Con questo termine si designa ogni forma di pregiudizio, segregazione, svalorizzazione in ragione della classe di età. Ma l’espressione più diffusa di ageismo è quella contro i “vecchi”: una delle forme di discriminazione tra le più invisibili e tollerate, insiste Jerôme Pellissier, ricercatore e autore di pubblicazioni sul tema. Vi si sofferma anche Enrico Pugliese nell’ultimo capitolo dell’ottimo La terza età. Anziani e società in Italia (il Mulino, 2011). Gli stereotipi e i pregiudizi più diffusi sono quelli per cui tutti gli anziani sarebbero immobilisti, conservatori, reazionari, inoperosi; e/o abbienti, privilegiati, potenti, perciò accusati d’impoverire i giovani, di occupare abusivamente posti e ruoli di prestigio, di rubare il lavoro: cosa, quest’ultima, in Italia particolarmente risibile dopo la riforma Fornero, che impedisce di andare in pensione prima dei 67 anni.
In Occidente, tra le ragioni dell’ageismo v’è la rimozione della finitezza, così tipica del nostro tempo: le persone anziane testimoniano che la morte è ineluttabile e la decadenza fisica assai probabile. Il paradosso è che coloro che coltivano pregiudizi verso i “vecchi” contribuiscono a condannare se stessi all’appartenenza futura a una categoria svalorizzata o stigmatizzata.
Ma vi sono anche i mutamenti sociali che hanno investito la struttura e il ruolo della famiglia, non più allargata ma mononucleare, in quanto tale tendente a estromettere gli anziani. Si aggiunga il prevalere della cultura che esalta la produttività, la prestazione, la forma, l’aspetto esteriore, e che produce ideologie giovaniliste. Queste, ben lontane dal valorizzare effettivamente il ruolo dei giovani, inducono a coltivare, spesso in modo compulsivo, il mito dell’eterna giovinezza: al punto che il “Cavaliere”, oggi più vicino agli ottant’anni che ai settanta, per non pochi continua a incarnare il modello ideale del vincente che esercita potere anche nella sfera sessuale.
In Italia il giovanilismo ispira a sua volta le retoriche della “rottamazione”, dietro cui si dissimulano ambizioni personali e giochi di potere. Un indizio d’ideologia giovanilista è la convenzione lessicale, affermatasi negli anni recenti in ambito giornalistico ma non solo, che designa come ragazzi anche adulti fino alla fascia dei quarant’anni, salvo appartengano a categorie svalorizzate (migranti, rifugiati, rom…). E’ una spia della tendenza a semplificare drasticamente, secondo la dicotomia ragazzi/vecchi, le scansioni del ciclo della vita umana, di conseguenza il paesaggio sociale. Contrapposte le une alle altre, entrambe le categorie –arbitrarie più di altre- possono essere oggetto di stigmatizzazione: basta pensare alla progressione che va dagli insulti dell’allora ministro Brunetta contro i giovani precari all’invito sprezzante a non essere troppo choosy, rivolto dall’ex ministra Fornero.
Al tempo della Terza Grande Depressione, gli anziani (i non ricchi e non potenti) spesso divengono -insieme ad altri soggetti marginalizzati, discriminati o disprezzati (ancora una volta migranti, rifugiati, rom)- capri espiatori per settori di popolazione che sperimentano direttamente gli effetti sociali della crisi e delle politiche di austerità. E non solo: l’ideologia dell’austerità, le sue pratiche, nonché una certa demografia apocalittica fanno sì che l’invecchiamento della popolazione sia rappresentato -dai poteri ma anche da settori di opinione pubblica- come fardello sociale non più sopportabile. Così i tagli drastici al welfare, in specie alla sanità pubblica, nel nostro e in altri paesi europei incrementano la discriminazione delle persone anziane. In Europa sono soprattutto i medici a denunciare che l’età avanzata è la principale barriera rispetto all’accesso a cure sanitarie adeguate.
Specialmente in periodi di crisi e recessione, il pregiudizio e la discriminazione in ragione dell’età avanzata possono sommarsi a quelli in base al genere, all’origine, allo status, alla condizione sociale, producendo effetti drammatici. La svalorizzazione della vecchiaia, la rappresentazione di giovani e anziani quali unità sociali distinte e rivali è un inganno utile a occultare le fratture di classe e di potere, le crescenti ineguaglianze sociali, l’isolamento dei più deboli, la disoccupazione e l’impoverimento di massa.
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