Editoriale

Sì, la premier Meloni è di destra

Sì, la premier Meloni è di destraGiorgia Meloni alla Camera – Ap

La fiducia alla Camera Il presidente del consiglio Meloni (che non è un uomo ma una donna che vuole essere appellata come un politico maschio), ieri si è presentata in Parlamento per il discorso […]

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 26 ottobre 2022

Il presidente del consiglio Meloni (che non è un uomo ma una donna che vuole essere appellata come un politico maschio), ieri si è presentata in Parlamento per il discorso di fiducia, testimoniando, in diretta tv, l’avvilente retromarcia lessicale. Confermata dall’incipit, con quel «onorevoli colleghi» che ha cancellato d’un colpo le altrettanto onorevoli «colleghe».

La successiva lunga sfilza di nomi di donne (Tina, Nilde, Rita, Oriana, Samantha….), citate come esempi di grandi biografie di riferimento, non è tuttavia servita a resuscitare improbabili richiami alla sorellanza che non c’è. Né nel suo partito, né nel suo governo.

La presidente (senza offesa) Meloni, nel lungo, coriaceo, furbo, identitario intervento ha tentato il grande salto: dallo status di underdog allo standing di figura istituzionale, dal ruolo di leader di partito a quello di leader di governo.

Senza riuscire nell’ardua impresa, perché la militante del fino a ieri marginale partito della destra post-missina, alla fine ha prevalso su tutto il resto della performance.

Così dopo 70 minuti e diversi bicchieri d’acqua per placare una tosse fastidiosa, accompagnata da un sottofondo pressoché ininterrotto di applausi e standing ovation, siamo rapidamente tornati a dove eravamo rimasti, cioè agli ultimi comizi della campagna elettorale.

Non perché la prima presidente del consiglio donna non abbia toccato una fitta agenda di temi e argomenti. Ma perché non ha mai saputo (o potuto) spiegare come intende attuare quelli che, senza una traduzione concreta, restano solo slogan appesi con le mollette della propaganda.

Esempi: per ridurre il debito ci vuole la crescita; dobbiamo spendere bene i soldi del Pnrr; abbasseremo le tasse; lavoreremo per aumentare l’occupazione; daremo la pensione ai giovani; avremo asili comunali gratuiti per tutti. Ottimi, encomiabili obiettivi di una lunga lista della spesa.

Tuttavia, a meno di non voler affrontare la recessione che affligge le due sponde dell’Atlantico e risolvere i problemi del nostro bilancio pubblico con l’abolizione (peraltro parziale) del reddito di cittadinanza, Meloni non ha trovato le parole per farci capire dove prenderà i soldi per finanziare il suo nuovo miracolo italiano. Anche se, per attuarlo, si è detta pronta a sfidare l’impopolarità, il consenso e persino la rieleggibilità.

Forse il silenzio e la fitta nebbia, appena camuffati dall’uso ripetuto della parola «pragmatismo», sono stati l’unico rifugio, la sola via di fuga di fronte alla necessità di seguire la strada della continuità con il governo Draghi, dell’intesa cordiale con quelle élite europee fino a ieri nel mirino di Fratelli d’Italia, partito amico dei peggiori regimi illiberali, oscurantisti e fascistoidi d’Europa.

Una comunanza mai smentita che rende assai esile la sua esibita fede europeista (ci è andato di mezzo anche il povero Montesquieu, citato a proposito di libertà e democrazia), e più convincente invece la sua adesione (storica, questa sì, fin dai tempi del Movimento sociale) all’atlantismo (anche se di stampo più trumpiano che democratico).

Eseguiti in qualche modo i compiti a casa a beneficio di chi osserva l’avvio della legislatura oltreconfine, la leader di Fd’I ha via via preso la rincorsa verso quel profilo identitario della destra, degli umori degli elettori che l’hanno votata e che intendeva pienamente rappresentare dalla tribuna di Montecitorio.

Una spavalda cavalcata su Dio, patria, famiglia, sovranismo, sicurezza, migranti, dittatura sanitaria, trivellazioni, sport contro le devianze, più carcere per tutti, autonomia differenziata combinata con la riforma presidenzialista. Con qualche maldestro testa-coda come il fatto di giurare di non avere nessuna simpatia per «i regimi autoritari, fascismo compreso», senza curarsi troppo di quei filmati mandati in oda dalle televisioni sui suoi appassionati apprezzamenti per Mussolini «grande statista».

Acqua passata, oggi sarebbero «libertà, eguaglianza, democrazia» le pietre miliari del nuovo corso, che avrebbe l’ambizione di farla diventare la rappresentante di quella destra moderna e conservatrice che in Italia non c’è mai stata. Né con il berlusconismo che mentre sdoganava l’almirantiano Fini, affondava le radici nell’evasione fiscale, nella corruzione, nel plebiscitarismo, nella rappresentazione al posto della rappresentanza, nella trasformazione del cittadino in audience. Né con l’impronta razzista, xenofoba, manettara, putiniana della Lega di Salvini.

Ora, con il potere meloniano, anche mediatico, vedremo quale immaginario, quale egemonia culturale avvolgerà il Paese, anzi la Nazione e i suoi cittadini, anzi i patrioti.

Quando si gioca alla morte delle ideologie, in sostanza togliendo di mezzo le idee della sinistra, succede che vince l’ideologia che resta in campo.

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