Editoriale

Sulle riforme costituzionali, il “canguro” è decisionista

Sulle riforme costituzionali, il “canguro” è decisionista/var/www/ilmanifesto/data/wordpress/wp content/uploads/2014/07/30/31desk1f01 banchi governo senato eidon 1073690 – Reuters

Senato L'applicazione del regolamento può bloccare la discussione su un riforma che rischia di ridurre la rappresentanza politica

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 31 luglio 2014

Riforme a ogni costo, tuona Renzi. La giunta per il regolamento apre la strada dando luce verde al taglio degli emendamenti, ma il senato sembra El Alamein e Grasso viene duramente contestato. Certo, il «canguro» è una tecnica consolidata nella prassi, e ampiamente utilizzata. Ma tutto dipende dal come.
Il principio di fondo è che l’assemblea non può essere chiamata a votare nuovamente su quello che ha già deciso. Quindi, se un emendamento viene rigettato, il voto travolge anche gli altri emendamenti di contenuto sovrapponibile al primo, assumendo tra l’altro che uguale volontà esprimerebbe l’aula votandoli uno a uno. Si salta all’emendamento successivo, e da qui il nome. La decisione su cosa votare, e con quali effetti, spetta al presidente ed è inappellabile.
Fino a che punto è corretto ritenere che il voto negativo su un emendamento ne travolga altri? Solo fino a quando si può assumere che in tutti gli emendamenti vi sia una parte coincidente, e che questa sia assorbente per il merito dell’emendamento nel complesso. Un esempio. Primo emendamento: «è rinviato l’inizio del procedimento per…». Secondo: «è rinviato l’inizio dell’anno scolastico…». Terzo: «è rinviato l’inizio della stagione venatoria…». Non sarebbe una corretta applicazione del canguro mettere in votazione per il primo le parole «è rinviato l’inizio», e assumere che il voto negativo travolga anche gli altri due. Ovviamente, non si potrebbe desumere dal rigetto che l’assemblea sia contraria ad ogni rinvio, di qualsiasi oggetto o finalità. Ugualmente scorretto sarebbe mettere in votazione il rinvio come principio unificante, e trarre dal voto negativo il rigetto.

Dunque, Grasso è arbitro imparziale o risponde a strategie sotterranee, magari – come qualcuno sussurra – quirinalizie? Vuole forse scrollarsi di dosso il peccato originale di una propensione per il senato elettivo? Difficile dirlo in astratto, e senza guardare caso per caso le decisioni assunte. Ma con certezza due considerazioni non devono entrare nella valutazione di quel che accade.
La prima. Non si può argomentare che comunque, essendoci una maggioranza, far cadere cento o mille emendamenti non fa alcuna differenza, perché alla fine il risultato non cambia e si perde solo tempo. A voler andare fino in fondo, basterebbe allora far votare una volta solo i capigruppo. Lo proponeva nel marzo 2009 Berlusconi, con l’argomento di guadagnar tempo e limitare i rischi. Fu l’allora presidente Fini a dirgli no, e il Pd alzò le barricate parlando di pulsioni autoritarie. Altri tempi.
La seconda. Stiamo parlando di una grande riforma costituzionale, che indebolisce la rappresentanza politica e la partecipazione, e altera l’equilibrio tra i poteri. Se c’è un terreno sul quale non si può con decenza portare fino in fondo l’affermazione che la maggioranza ha il diritto di decidere, è questo. Per definizione, la Costituzione è di tutti. Inoltre, Sono in campo proposte mai avanzate nel dibattito sulle riforme, come quella di imbottire il senato esclusivamente con personale politico di seconda scelta. C’è la connessione con la legge elettorale e con un patto semi-segreto – Nazareno – che lega le riforme alla sopravvivenza personale e politica dei due stipulanti e dei gruppi a loro vicini. C’è l’obiettivo del governo di alzare polveroni inasprendo il confronto, per distogliere l’attenzione dai possibili fallimenti su fronti di ben maggiore e più immediato interesse, come l’economia. C’è l’intento di forzare il sistema politico favorendo alcuni attori a danno di altri, e rendendo difficile o impossibile l’ingresso ai newcomers. Un sistema ingessato, ora e in futuro. Perché mai in Gran Bretagna vediamo nella camera dei comuni parlamentari eletti con poche migliaia di voti, mentre da noi forze politiche che ne raccolgono centinaia di migliaia sono ricattate (dal governo!) non solo per l’oggi, ma anche per il domani nella prospettiva di possibili nuove elezioni?
Tutto questo va considerato nel valutare quel che accade. Non basta l’irrisione, l’insulto, l’accusa che i senatori difendono le poltrone. Oggi, solo quelli che obbediscono al capo possono avere una chance in più di ritornare sul seggio parlamentare, per meriti acquisiti. Chi si oppone peggiora quelle chances, e merita rispetto. Merita soprattutto che chi osserva non perda di vista, nel chiasso e nel polverone, il merito dei problemi. Lo stesso vale per chi decide sugli emendamenti.
Se vincerà Renzi si prefigura uno scenario in cui un partito del 40% – oggi forse il Pd, domani chissà – diventa l’asso pigliatutto, e concentra il potere su sé stesso e soprattutto sul suo leader. Che sia poi magari il 40% del 58% degli aventi diritto, per un consenso reale che non giunge a un elettore su quattro, poco importa. È la magia dei numeri. Se la Dc di un tempo lontano – quella buona – avesse ragionato così, questo paese avrebbe avuto un’altra storia, certo peggiore. E quello era un partito del 40% sul 90% degli elettori. Arridateci quella Dc.

ABBONAMENTI

Passa dalla parte del torto.

Sostieni l’informazione libera e senza padroni.
Leggi senza limiti il manifesto su sito e app in anteprima dalla mezzanotte. E tutti i servizi della membership sono inclusi.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento