Editoriale

Telemaco-Renzi, i fatti e le parole

Telemaco-Renzi, i fatti e le paroleMatteo Renzi

Almeno dal punto di vista della produzione continua di parole mediaticamente incisive bisogna dire che Telemaco-Renzi ci si è messo di impegno. Per convincerci che con il famoso semestre di […]

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 6 luglio 2014

Almeno dal punto di vista della produzione continua di parole mediaticamente incisive bisogna dire che Telemaco-Renzi ci si è messo di impegno. Per convincerci che con il famoso semestre di presidenza italiana del Consiglio d’Europa il destino del vecchio continente, imprigionato nelle politiche dell’austerità, può davvero cambiare. Nessuno – è stato notato in questi giorni – si era mai accorto che queste presidenze a turno fossero così importanti.

Ma quel ruolo rappresenta certamente un’occasione per incrementare ancora lo statuto mediatico globale dell’unico leader di un partito di governo uscito vincente dal recente voto europeo. E così in pochi giorni siamo passati dal selfie di un’Europa che deprime con la sua noia, alle battute contro la Bundesbank, che deve limitarsi al suo mestiere e non permettersi di dire alla politica – e a Telemaco-Renzi – che cosa deve fare.

Sino alla frase declamata ieri da Bolzano: «Difendiamo l’Europa dall’assalto della tecnocrazia!». Chissà se Mario Monti ha avuto un soprassalto, o almeno ha inarcato il sopracciglio.
Certo il premier si riferiva all’Europa «dei banchieri e dei burocrati», ma il crescendo di espressioni critiche verso l’immagine presente dell’Unione ha assunto quasi i toni di un post di Beppe Grillo. E non sarà un caso, visto l’impegno del segretario del Pd per catturare consensi da un lato dall’elettorato sempre più confuso di Berlusconi, e dall’altro da quello assai perplesso del comico genovese.

Ma sarebbe facile a questo punto constatare che, per cambiare effettivamente qualcosa in Europa, ci vogliono i fatti e non bastano le parole. E che tutta questa vis polemica, condita con la retorica della riconquista di un’«anima» radicata nella cultura della Grecia classica e dell’Italia di Dante, si riduce pur sempre a un accordo, a un compromesso tra socialdemocratici e popolari nel nome del moderato Juncker.

Ieri sul Foglio Stefano Fassina elencava puntigliosamente un elenco di «correzioni sistemiche» – non molto leggibili nel lessico renziano – che dovrebbero essere strappate proprio al potere tecnocratico che domina dalle parti di Bruxelles. Non basta, insomma, invocare la «flessibilità».

Ma anche le parole sono fatti. Lo sono sempre state nella storia della politica, e lo sono tanto più nel mondo ipermediatizzato di oggi. La battuta di ieri contro i «tecnocrati» è inserita in un passaggio sul rapporto tra futuro, presente e passato. Renzi non vuole più apparire come il «rottamatore del passato» (un altro conto è stata la faccenda di «alcuni politici romani»). Aver fatto fuori D’Alema e Bersani (ma anche il quasi coetaneo Enrico Letta) non vuol dire ignorare che una politica che abbia ambizioni egemoniche, come si sarebbe detto un tempo, non può fare a meno di una tradizione, di un sistema di idee e di valori di riferimento che non nascono con un tweet da un momento all’altro.

Ieri sul Corriere della Sera Paolo Franchi tornava sulla metafora del figlio di Ulisse (la trovata recalcatiana di Renzi ha comunque prodotto una quantità ragguardevole di commenti su tutti i media) riconoscendo al premier di avere quanto meno «buon olfatto», buon fiuto nel tematizzare ora, dopo la fase distruttiva e rottamatrice, l’esigenza di un qualche «patto tra generazioni», e interrogandosi semmai sulla consistenza culturale del nuovo discorso renziano.

Tutto questo agire e elucubrare sull’eliminazione dei padri che sbagliano o sulla ricerca dei padri assenti resta però all’interno di una genealogia maschile il cui meccanismo di riproduzione positiva si è inceppato da tempo. La «rottamazione», detestata e ammirata, è stato in fondo un modo di svelare questa realtà. Renzi sembra anche molto sicuro che uno dei rimedi ai disastri della politica sia la promozione delle donne in posti di responsabilità. Ma quando dice, scherzando ma non troppo, che il «boss» per lui è il ministro Padoan, dietro il quale si vede la figura di Napolitano, ecco svelato il nucleo forte del suo governo, ecco Telemaco tenuto per mano da Ulisse, l’unico a possedere un arco (ammesso che funzioni ancora).

Forse per trovare un’altra Europa bisognerebbe sapersi rivolgere anche a un’altra genealogia. Le parole allora potrebbero nominare una rivoluzione simbolica capace di cambiare anche le cose.

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