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Jobs act Il libro bianco della Cgil e il suo Piano del Lavoro sono più organici e completi, ma il documento di Renzi è una novità nel piatto panorama delle forze politiche
Jobs act Il libro bianco della Cgil e il suo Piano del Lavoro sono più organici e completi, ma il documento di Renzi è una novità nel piatto panorama delle forze politiche
Non ho la più pallida idea di cosa si cela dietro il Job Act di Renzi, ma combinare politica industriale, welfare state e funzionamento della macchina pubblica, è una innovazione importante. Il piano del lavoro e il libro bianco della Cgil sono più organici e completi, per il numero delle persone coinvolte e il tempo trascorso per svilupparlo, ma la novità del Job Act è evidente. Nel bene e nel male si configura la necessità di una politica economica.
Poi la politica economica può assumere diverse declinazioni, ma almeno è ricomparsa tra le ombre della politica italiana.Ci sono anche delle stupidità, mi perdoneranno gli estensori del Job Act, come quella di ridurre l’Irap del 10% via aumento della tassazione delle rendite finanziarie; le entrate non coprono la riduzione dell’Irap, ma il problema fiscale è rimesso al centro della discussione.
Si riconosce che l’articolo 53 della Costituzione italiana («Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività»), e lo “svuotamento” dell’Irpef sono un problema serio. La stessa revisione della spesa pubblica, se diventa “governo della spesa pubblica”, potrebbe diventare un orientamento che aiuta a ri-allocare le scarse risorse. Un nodo importante se consideriamo che la spesa pubblica italiana è la più bassa tra i paesi europei in rapporto al Pil, al netto del servizio del debito.
Sul piano del lavoro e dei diritti è necessario un «riformismo rivoluzionario» (Riccardo Lombardi). Se facessi dietrologia intravedo la proposta di Boeri, ma il tema della democratizzazione del lavoro è indiscutibile, e deve camminare assieme alla politica industriale.
Ma il tema sollecitato da Renzi è come si crea lavoro. Gli oggetti della politica industriale – cultura, turismo, agricoltura, cibo, made in Italy, ict, green economy, nuovo welfare, edilizia e manifattura – dicono tutto e niente, ma almeno si afferma che la manifattura può essere un oggetto su cui rifondare la crescita italiana. Di questi tempi mi sembra una novità. Avete presente le stupidità sul lavoro nei servizi senza industria?
Se il Job Act è aperto, provo a configurare alcuni indirizzi di politica economica che avevo discusso a un convegno a Desio con Yoram Gutgeld nel 2013. Parto da una sollecitazione di Sylos Labini: se l’innovazione è all’origine del ciclo economico e dello sviluppo (Schumpeter), è corretto sottolineare che «…le innovazioni non influenzano in modo uniforme il sistema economico…»; per questo «…occorre concentrare l’attenzione sui cambiamenti strutturali del sistema». In altre parole, è la «variazione nell’organizzazione di una entità produttiva (compresa l’economia nel suo complesso), e la variazione delle specificazioni dei fattori produttivi esistenti», a condizionare il tasso di profitto. Quindi la politica economica serve per affrontare l’instabilità endogena del sistema economico e industriale. Una questione che è stata esasperata dalla moneta unica europea. Per questa ragione il solo aumento della domanda, in generale, è la negazione stessa della politica economica. Senza politica economica sarebbe impossibile portare avanti con «successo una redistribuzione settoriale dell’occupazione da settori in declino verso settori in espansione» (Pasinetti-Leon).
L’Europa è spesso associata alle politiche di austerità. Verissimo! Ma tra le pieghe dell’Europa troviamo delle linee di politica industriale ed economica che sarebbero di grande utilità per l’Italia. Le politiche industriali europee ruotano attorno a due obiettivi distinti, ma profondamente integrati: la necessità di consolidare i settori maturi per strutturare le barriere all’entrata al fine di compensare le perdite dovute alla domanda di sostituzione, garantendo dei saggi di crescita sufficienti; dall’altra si rafforzano i settori a maggiore contenuto tecnologico, che nel corso degli ultimi anni registrano dei tassi di crescita importanti, con un mercato potenziale tutto da occupare. Un’inversione di tendenza importante, ancora insufficiente per realizzare gli obiettivi di Europa 2020 e la sottesa politica industriale.
Renzi menziona la green economy come uno degli oggetti della politica economica. Un errore metodologico giustificato dalla pubblicistica italiana. In realtà, la green economy declinata dalla Commissione europea è un orizzonte che domina e guida tutti i settori declinati da Renzi. Infatti, sono le green technologies e la conseguente domanda d’investimenti delle imprese per raggiungere gli obiettivi indicati dall’Ue, l’orizzonte delle policy industriali dell’Europa, parzialmente riconosciute con il bilancio europeo 2014-20.
Purtroppo le politiche industriali hanno un limite nella diversa specializzazione produttiva dei singoli paesi che si amplificano con la moneta unica: a parità di condizioni (finanziarie e monetarie) sono proprio le politiche industriali pubbliche, la presenza di un tessuto produttivo privato innovativo e non ostile, a governare i cambiamenti tecnologici, a condizionare le traiettorie dello sviluppo e la dinamica strutturale. In altri termini, i paesi che hanno costruito e consolidato dei sistemi nazionali d’innovazione capaci di fare ricerca e sviluppo, hanno anche saputo governare l’evoluzione delle componenti della domanda, producendo i beni necessari per le esigenze di una struttura produttiva e di consumo sempre più fondata su beni e servizi ad alto contenuto tecnologico, riducendo gli investimenti sul Pil, ma rafforzando la struttura di ricerca e sviluppo. I governi che hanno tenuto un atteggiamento neutrale, lasciando al mercato il governo di questi processi, non hanno solo rinunciato al ruolo storico della pubblica amministrazione di agente economico, non solo non hanno condizionato la crescita e lo sviluppo del proprio paese, ma hanno impedito il perseguimento di una dinamica economica strutturale coerente con gli obiettivi sottesi alla creazione della stessa moneta unica.
A questo punto abbiamo tutti gli strumenti per indagare correttamente la domanda di lavoro: lavoro buono e ad alto valore nei settori emergenti; lavoro produttivo e con certi diritti, legato alle economie di scala per tutti i settori che beneficiano della tecnologia dei settori emergenti; lavoro precario e a basso salario per tutti i settori che devono lasciare spazio alla produzione emergente di maggiore valore aggiunto. Governare il passaggio da una produzione a minore valore aggiunto verso una a maggiore valore aggiunto, significa adottare delle politiche che anticipano la domanda. In altri termini fare economia pubblica.
Non sono sicuro che il Job Act sia attento alle questioni sollevate, ma se si esce dai luoghi comuni e si entra nel merito dei problemi di struttura del paese, il lavoro può ri-assumere la centralità che l’art. 1 della Costituzione gli assegna.
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