Totti, «un capitano» e l’amore assoluto e folle per una squadra
17 giugno 2001, Totti segna il gol del terzo scudetto romanista
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Totti, «un capitano» e l’amore assoluto e folle per una squadra

Scaffale Nell’autobiografia del campione giallorosso il calcio moderno va in fuorigioco

Pubblicato circa 6 anni faEdizione del 23 ottobre 2018

Che cosa devi fare per essere degno di un amore così folle, così assoluto, così esagerato? Alla domanda che apre e chiude l’autobiografia di Francesco Totti (con Paolo Condò, Un capitano, Rizzoli, pp. 503, euro 21) è forse impossibile dare una vera risposta.

La «Tottilatria» a Roma è un fenomeno popolare in voga da quasi trent’anni, che dilaga in murales in giro per la città e folle adoranti che seguono l’ormai ex capitano giallorosso come un Forrest Gump e i suoi adepti nella Monument Valley.

Anche oggi – che vorrebbe fosse Daniele De Rossi a godere finalmente di onore e oneri della fascia romana e romanista – Totti è un personaggio larger than life, per dirla come il presidente James Pallotta se avesse la bontà di interessarsi alla storia della sua squadra.

Nel libro però ci sono molti indizi.

PIÙ CHE IL PERSONAGGIO – calciatore, è la persona Totti a essersi meritata l’affetto dei tifosi giallorossi. Un po’ lucignolo («Questo è il primo libro che ho letto in vita mia, anche perché la storia già la conoscevo…», ha detto ridendo nella superpresentazione della sua autobiografia curata al Colosseo da Rizzoli), spesso guascone (chi non ricorda il «cucchiaio» all’Olanda?) ma sempre fedele capitano, l’unico calciatore che ha detto no al Real Madrid.

Un personaggio monumentale ma una persona riservata e sorniona. Più che il Colosseo Totti è come i gatti che lo abitano, eterni e indifferenti al passare del tempo. Un monumento di questa città ma vivo e vivente. Una città che fin da adolescente (racconta più volte nel libro) si rammarica di non poter conoscere, blindato e braccato ovunque vada.

OGGI CHE I SUOI GOL si possono ammirare solo su youtube, la «Tottilatria» suona come una religione del passato ai più aridi dei giornalisti romani. Non così per i tifosi, che ancora oggi letteralmente gli lanciano figli da fotografare, magliette da firmare, selfie di ogni durata.

C’è da augurarsi che in tanti, soprattutto i romanisti più giovani, leggano questo libro, una bella conversazione con il giornalista Paolo Condò. Per tutta la sua carriera Totti ha parlato poco. Un’intervista l’anno e stop. Più a suo agio nella tana di Trigoria o dell’Olimpico che in altri palcoscenici.

Un personaggio amato come pochi eppure sconosciuto al pubblico, male interpretato (è tutt’altro che un coatto romano e del «pupone» può avere al massimo la chioma bionda e l’amore assoluto per la mamma e per la moglie), giudicato un violento per alcuni brutti episodi come lo sputo al danese Poulsen in nazionale (il gesto di cui si vergogna di più in assoluto, di tutta la sua vita) e un fallaccio premeditato contro Balotelli all’Inter ma in realtà un ragazzo-padre dal cuore sornione e timido.

Tutt’altro che un gladiatore. «Sono un fifone», confessa nel libro. «Ho paura», dirà nel messaggio struggente nel giorno del suo addio al calcio due anni fa.

Il racconto di Totti a Condò riduce al minimo lo scarto tra l’icona e la persona.

Un personaggio anti-eroico, che ammette la madre e la moglie come l’alfa e l’omega della sua vita. Non è un libro autocelebrativo, è un libro per la sua categoria più che onesto.

LE ANTICIPAZIONI dei giornali sportivi si sono infiammate per l’ultimo scontro con Spalletti, che in realtà però a leggere tutto sembra più un indistricabile divorzio tra persone che si sono volute bene che una vera resa dei conti.

In tutto il libro l’unico personaggio dipinto come un cattivo, anzi, proprio come «l’assassino», è il dirigente della società capitolina Franco Baldini, che in una pagina anodina e senza aggettivi viene definito come la persona che per anni – fortunatamente fallendo – ha voluto mandare Totti via da Roma e dalla Roma.

Tra le pagine scorre non solo la carriera del calciatore – 25 stagioni con un’unica maglia (solo Maldini con il Milan ne ha giocate di più), 786 presenze e 307 gol (secondo miglior marcatore della storia della serie A) – ma anche il cambiamento del calcio stesso, da sport popolare e di popolo a business per emiri e opache finanziarie globali.

Quando Totti esordiva in serie A (28 marzo 1993) non esistevano i telefonini né Internet (l’aggeggio più moderno era il walkman!), con la giovane figlia del presidente (Rosella Sensi) si poteva giocare a carte in ritiro come due ragazzi qualsiasi, le partite si guardavano solo allo stadio (la Rai trasmetteva una sintesi in differita a turno) e soprattutto si giocava tanto a pallone per strada, non sulla Playstation.

IL CALCIO DEGLI ANNI ’90 era un mondo in transizione, in cui già si vedeva bene il passato e il futuro di questo sport.

Totti ha attraversato entrambe queste epoche senza mai cambiare. Oppure sì, proprio cambiando e adattandosi per restare se stesso, dimostrando un’intelligenza e una resilienza che nessuno della sua generazione calcistica ha avuto.

E in fondo il «capitano» ha soltanto 42 anni. Il secondo tempo della sua storia è ancora tutto da scrivere.

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