Sport

Un contropiede sulla realtà

Un contropiede sulla realtà«Football» di Alexander Deineka, 1924

Un mondo nel pallone Un gioco dove la gratuità va a braccetto con la mercificazione, dove i fascisti vanno a caccia di proseliti nelle curve, dove convivono passione e violenza. Alcune riflessioni sul calcio a partire dalla «Poetica del catenaccio» di Massimo Raffaeli

Pubblicato quasi 11 anni faEdizione del 19 febbraio 2014

«La maggioranza dei detenuti, anche politici, leggeva “La Gazzetta dello Sport”». Così scrive Antonio Gramsci nei Quaderni del carcere proponendosi di esaminare, oltre ai normali quotidiani e alla stampa periodica, anche «quella sportiva». Lo sport accende le passioni e per questo, ci dice il marxista sardo, va compreso, studiato e criticato se si vuole essere capaci di esercitare una funzione egemonica sulla società.

Basterebbe questo breve richiamo per comprendere quanto sia importante il potere simbolico dello sport nella costruzione dell’ideologia e del senso comune. Un potere che da trent’anni una storica firma de il manifesto, Massimo Raffaeli, cerca di indagare, in particolare attraverso l’analisi del rapporto tra calcio e letteratura. E l’ultimo suo lavoro, La poetica del catenaccio e altri scritti di calcio (Italic, pp. 253, euro 16), conferma la ricchezza di questa indagine che con competenza e passione riflette sugli innumerevoli nessi storici, sociali, economici, educativi e culturali che innervano «il gioco più bello del mondo» (Gianni Brera). Si tratta di 53 «pezzi» giornalistici, in grandissima parte apparsi su il manifesto e su Alias, che concludono un’ideale trilogia iniziata con L’angelo più malinconico. Storie di sport e letteratura (Affinità elettive, 2005) e proseguita con Sivori, un vizio e altri scritti di calcio (Italic, 2010). «Pezzi» scritti in un italiano elegante, espressivo, mai esoterico: ogni riferimento è spiegato, quando viene citato un testo se ne danno l’editore e l’anno di pubblicazione, nella convinzione, molto gramsciana e fortiniana, della critica anche come servizio, come diffusione democratica del sapere.

Rappresentazione del sacro

La passione che muove Raffaeli è una passione vigile e sobria, consapevole che il calcio è ormai divenuto un’impresa globale miliardaria, fatta di presidenti, allenatori, tecnici, giocatori, giornalisti che vivono molto spesso in un mondo dorato lontano anni luce dai problemi dell’umanità; un mondo in cui periodicamente si affacciano poteri criminali, corruzione, doping. Un mondo, inoltre, che esercita un’egemonia su milioni di esseri umani, che in molti casi dimenticano le loro dure condizioni di vita e di lavoro, scaricando le proprie frustrazioni su «negri», «ebrei», «zingari», «froci». Anche per questo le curve sono diventate luoghi di propaganda fascista e nazista.

Questo suo essere oggi una «realtà autocentrata» determina il fatto, nota l’autore, che «grandi cantori del calcio come Osvaldo Soriano e Eduardo Galeano guardino per lo più al passato». Come quando un calciatore come Gigi Riva decise di non lasciare il Cagliari e la Sardegna per l’amore e la riconoscenza verso un ambiente che lo aveva accolto come un fratello, rinunciando così alle offerte miliardarie di una squadra come la Juventus. Raffaeli sa che sia oggi che nella sua secolare storia ci sono stati episodi e uomini che hanno conferito conferito al calcio quel carattere di «rappresentazione sacra» di cui ha scritto Pier Paolo Pasolini. Bellezza, passione, divertimento, festa sono ancora gli ingredienti fondamentali per quanti vivono questo sport come un pezzo importante ancorché non totalizzante delle loro esistenze. Si tratta, come è evidente, di un moto dialettico e contraddittorio, in cui convivono la bella forma e il cinismo, la passione e l’odio, la gratuità e la mercificazione.

Emblema di questa ambivalenza è uno dei pochi romanzi italiani che hanno raccontato il calcio, leggendolo anche come una metafora di una incipiente decadenza della società italiana. Ci riferiamo ad Azzurro tenebra di Giovanni Arpino, un testo del 1977 che narra le vicende della rovinosa eliminazione della nazionale azzurra dai mondiali di Germania del 1974 e al quale Raffaeli dedica uno dei suoi scritti più belli. Di colore «azzurro tenebra» erano le cravatte degli azzurri date in pasto ai tifosi italiani, quasi tutti emigrati, dopo l’eliminazione della Nazionale. «Il vero unico grande romanzo sul calcio» (Gian Paolo Ormezzano) descrive, con una prosa tagliente, asciutta, a tratti contratta e con venature espressioniste, la disfatta di una squadra invertebrata e irresponsabile, di cui Arp, cioè Arpino, il giornalista protagonista, salva solo Zoff (San Dino), Bearzot (il Vecio), Parola (Gauloise), Facchetti e Gigi Riva (Bomber), silenzioso e sofferente. Restano sullo sfondo, pur se presenti nel romanzo, l’indolenza e il logorio dei vecchi Rivera (Golden), Mazzola (Baffo) e dei più giovani Anastasi (Petruzzu) e della prima donna irrispettosa e presuntuosa Giorgio Chinaglia (Giorgione). Si legga questa impietosa descrizione: «Mosconi che andavano a sbattere nella ragnatela. Vecchi mosconi dall’addome gonfio e molle, aggravati dall’ostilità dell’autunno. L’istinto gli soffia ancora nelle ali però non hanno più forza e allora si catapultano nella ragnatela, alla cieca. Mosconi carichi di antiche polveri dorate che però sono zavorra». Un collettivo che non era tale, un gruppo incapace di fare squadra, tante prime donne votate alla disfatta: allegoria triste e profetica del nostro paese. A cui si aggiunge il mondo dei giornalisti, diviso tra Jene e Belle Gioie, tra cinici ricamatori di scoop e gossip e ruffiani trasformisti, mediocri yesman. Unica eccezione Gianni Brera (Grangiuàn) e Bibì (Bruno Bernardi de La Stampa). «Arpino – dirà Facchetti in un’intervista a Raffaeli del 2006, poco prima della morte – non ha fatto come spesso fanno i giornalisti, cioè non si è limitato a correre dietro alla palla, lui è andato a fondo e ha cercato di capire la situazione interpretando magari quelle che erano le nostre sensazioni intime, le più difficili da descrivere».

Uno scandaglio «a fondo» del futbol è stato felicemente realizzato da tanti poeti italiani del Novecento. Dall’immersione di Umberto Saba nella «calda vita» dei tifosi e dei giocatori della Triestina nelle Cinque poesie per il gioco del calcio alla caducità effimera di una partita nei versi e nelle prose di Vittorio Sereni al poemetto di Giovanni Giudici dedicato a Gipo Viani, calciatore e poi allenatore e direttore tecnico-sportivo del Milan di Nereo Rocco. Di questo poemetto, scritto negli anni del miracolo economico e significativamente intitolato Viani, sociologia del calcio, Raffaeli riporta i versi conclusivi: «Tutto questo parlare di calcio/ per non parlare di altro/- tutto questo per non guardare/ l’essenziale del mondo:/ soddisfatti per una sera/ se vince – disfatti se perde/ la squadra che altra spina è nel profondo/ del quotidiano servire./ Applaudiamo, stiamo ai patti,/ non cerchiamo di capire!/ Tutti questi quattrini per niente/ certo nessuno li dà/- allora, se paga qualcuno,/ qualcosa non va».

Sul versante educativo va ricordata la risposta che l’allenatore Renzo Ulivieri diede all’autore in un’intervista del 2011 dal titolo emblematico Meno tattica, più cultura. Presidente dell’Aiac (Associazione Italiana Allenatori di Calcio), uomo colto e dichiaratamente di sinistra, Ulivieri si incatenò davanti alla sede della Federcalcio per protestare contro una delibera di quest’ultima, poi ritirata, che voleva abolire il diploma per i 3600 allenatori delle squadre dilettantistiche di I, II e III categoria regionale. A proposito delle quali Ulivieri ricorda «che si tratta di realtà sociali particolari, spesso piccole frazioni dove non c’è neanche un cinema e lì la società sportiva è forse l’unico luogo di aggregazione: è lì che c’è bisogno di un allenatore che abbia studiato, e non solo il calcio, anche perché si trova a lavorare con una grande varietà di persone, dai ragazzini a giovani molto più grandi, anche di trenta o trentacinque anni». Dove va sottolineata la consapevolezza di Ulivieri, abbastanza rara nell’ambiente, della necessità di una formazione «politecnica», e non solo professionale, per gli allenatori italiani.

Una cronaca in fuorigioco

Accanto al calcio minore, nel libro sono presenti ritratti di campioni dimenticati che l’autore fa rivivere senza patetiche nostalgie, tentando sempre un corto circuito tra passato e presente. Ecco la vicenda del portiere della Nazionale Giuseppe Moro detto Bepi, morto precocemente a 53 anni povero e solo, di cui si ricorderà solo il collega Dino Zoff «offrendo la sua maglia azzurra per il funerale»; ecco l’«umanista» Luigi Bonizzoni, scomparso due anni fa, giocatore, allenatore, direttore tecnico e autore di libri importanti sulla tecnica calcistica, del quale si ricordano i tratti distintivi che egli insegnava ad ogni giocatore o allenatore: «lealtà, schiettezza, senso della misura, rispetto per qualunque avversario»; ecco i grandi oriundi degli anni tra i Cinquanta e i Sessanta, Sivori, Angelillo, Maschio, tutti discendenti di poveri emigrati italiani in Argentina; ecco il trasteverino Sor Carletto Mazzone lo «scopritore» di Totti e il «valorizzatore» di Pirlo nel ruolo di centrocampista; ecco l’eretico Ibrahimovic sempre insofferente alla dittatura degli schemi. E poi un omaggio a quella che nel testo è considerata tra le poche trasmissioni di qualità sul calcio, la radiofonica Tutto il calcio minuto per minuto, «un’oasi necessaria dentro al palinsesto perché è un luogo del racconto civile e della disamina tecnica: il ritmo è veloce, talora frenetico, ma ci si astiene volentieri dalle urla e dalle espressioni triviali, scomposte, sciammanate, che costellano le cronache televisive (non tutte, ovviamente, ma ormai quasi tutte)».

Un’ultima notazione riguardo al titolo del libro di Raffaeli, il quale vuole rivendicare la dimensione «poetica» del glorioso «catenaccio» e che l’autore evoca e rivendica ricordando, tra gli altri, i nomi di Gipo Viani e Nereo Rocco e poi di Helenio Herrera. Ma il titolo è anche un omaggio al più grande tra i giornalisti sportivi italiani, lo scrittore Gianni Brera. Il quale, dopo la vittoria degli azzurri ai mondiali di Spagna del 1982, quelli dell’esultanza del presidente socialista Sandro Pertini, arrivò ad appellare il calcio all’italiana con il religioso «Santo Catenaccio».

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