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Una memoria ambientalista sulla Montedison toscana

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Attenti ai dinosauri L'intervento di Edo Picci, ex operaio della Montedison di Scarlino, all'iniziativa promosssa dall'ANPI di Follonica con la nostra task force il 20 gennaio scorso. Cronaca di una delle prime lotte ecologiche. Vittoriosa

Pubblicato quasi 2 anni faEdizione del 26 gennaio 2023
Edo PicciScarlino Scalo (Grosseto)

Pubblichiamo l’intervento di Edo Picci, ex operaio della Montedison di Scarlino, all’iniziativa promosssa dall’ANPI di Follonica con la nostra task force il 20 gennaio scorso. Cronaca di una delle prime lotte ecologiche. Vittoriosa.

Si dice giustamente che la memoria è futuro e lo è ancora di più se collegata ai processi politici e sociali dell’attualità quotidiana, è questo che mi riprometto di fare in questo breve intervento, riportando alla nostra memoria una lunga e difficile battaglia ambientalista svoltasi a partire dai primi anni 70 nel nostro territorio, con al centro la fabbrica di biossido di titanio del Casone, di cui sono stato testimone e protagonista da giovane operaio.

Lo faccio volentieri anche per confutare un po’ l’opinione di una classe operaia insensibile ai problemi ambientali e di una sinistra politica e sindacale in forte ritardo nello scoprire l’importanza dell’ambiente e della sua stretta connessione con il lavoro e la produzione.

Quella fabbrica veniva dopo l’insediamento industriale che la Montedison aveva realizzato nella piana scarlinese per la produzione di acido solforico, ed erano per noi sicure fonti di lavoro e di progresso, risultato anche delle grandi lotte dei minatori, sostenute e rivendicate da tutto il territorio, affinché fosse lavorata in loco la pirite delle nostre miniere e questa del biossido di titanio ne rappresentava una ulteriore espansione. Forte era quindi l’attesa per l’avvio della produzione in particolare da parte dei circa 500 lavoratori appena assunti.

Alla fine del 1970 tutto era pronto per questo avvio, mancava però un presupposto essenziale, la sua compatibilità e sicurezza ambientale, infatti il nuovo impianto prevedeva lo scarico della grande quantità di reflui prodotti dalla lavorazione, circa 7 kg ogni chilo di biossido, direttamente in mare a poca distanza dalla costa, affidandosi solo alla sua capacità di smaltirne gli effetti inquinanti.

Ma così non la pensava l’amministrazione comunale di Scarlino guidata dal sindaco Flavio Agresti e da una maggioranza di sinistra, che doveva rilasciare la necessaria autorizzazione all’avvio della attività e quindi alla produzione di questi reflui, i cosiddetti “fanghi rossi”, e si oppose a questo metodo, sorretta anche da importanti pareri tecnico-scentifici che ne sconsigliavano il consenso per i pericoli alla salute del mare e delle persone per le conseguenze ambientali e sulla catena alimentare che ne potevano derivare, sollecitando nel contempo l’attuazione di altri metodi e strumenti di smaltimento più consoni alla tutela del lavoro e della salute.

Ebbe inizio una battaglia difficile e complessa con al centro il colosso industriale della Montedison allora proprietaria della fabbrica, l’amministrazione comunale, i lavoratori e il territorio con tutte le sue componenti politiche sociali istituzionali.

In partenza si misurarono prevalentemente due posizioni: l’una favorevole all’apertura della fabbrica per poi affrontare il problema degli scarichi, condivisa inizialmente anche dalla maggioranza dei lavoratori e dalle loro OO.SS , l’altra guidata dalla giunta comunale scarlinese che chiedeva invece subito interventi e garanzie che allontanassero e diminuissero i rischi per l’ambiente e la salute.

Si aprì di conseguenza un confronto serrato ma improntato alla comune volontà di trovare punti d’incontro e soluzioni per garantire il lavoro e la tutela dello stesso che si incominciò a considerare indispensabilmente legata a quella ambientale.

All’epoca questi principi iniziavano appena ad affacciarsi e a fatica a farsi strada in una opinione pubblica dove la sensibilità ecologica era ancora poco sviluppata, roba da intellettuali, il popolo aveva bisogno di lavoro e nelle nostre zone di quello industriale tanto agognato e rivendicato, difficile era quindi per quei 500 lavoratori in gran parte giovani che vedevano nel lavoro in quella fabbrica la possibilità di costruire il proprio futuro fuori dall’endemica miseria, dalla precarietà, dalla disoccupazione, dall’emigrazione, era per loro abbastanza incomprensibile che proprio una giunta di sinistra, guidata dal partito della classe operaia, mettesse ostacoli a queste legittime aspirazioni.

Ricordo le infuocate assemblee in fabbrica ,l’esasperazione dei lavoratori alimentata anche dal ricatto occupazionale che come al solito mise in atto la Montedison con la messa in cassa integrazione di oltre la metà dei lavoratori, ricordo le lunghe accalorate riunioni nelle sedi locali e provinciali della Cgil e del partito comunista.

Furono confronti e discussioni impegnative che fecero comprendere l’importanza e il valore strategico del controllo ambientale indispensabile proprio per assicurare sicurezza e futuro al lavoro e furono questi gli obbiettivi che iniziarono ad affermarsi generando un consenso sempre più ampio tra i lavoratori, nella fabbrica e nel territorio.

Certamente fu decisiva la presenza di una classe operaia in parte proveniente o rimpatriata dalle fabbriche Montedison del nord già forgiata nelle lotte politiche e sindacali dell’appena trascorso autunno caldo, ed un’altra buona parte composta di giovani del posto, cresciuti nelle famiglie contadine dove il partito, la Cgil, la sinistra avevano radici ben piantate e quindi una classe ben orientata e disposta a comprendere e far proprie le istanze e gli obbiettivi che i loro riferimenti e appartenenze, allora ascoltate e rispettate, gli proponevano e furono gli stessi lavoratori, i quadri e i tecnici della fabbrica a contribuire essi stessi alla elaborazione tecnica e politica dei punti di caduta della vertenza che contenessero lavoro e maggiore sicurezza .

Si passò quindi dalla discussione alla mobilitazione non contro il comune che non dava l’autorizzazione, ma il nemico da battere divenne il padrone, la Montedison, per costringerla a modificare il sistema dello smaltimento dei reflui, e furono gli scioperi prima in fabbrica, poi generali nelle Colline Metallifere e infine in tutta la provincia.

La lotta usciva dalla fabbrica, dalle fumose stanze delle riunioni e delle assemblee, investiva il territorio che attendeva quel lavoro per il proprio sviluppo e la propria ricchezza e la risposta fu forte corale e intensamente partecipata.

Ai cortei dei lavoratori che si svolsero a Follonica e Grosseto, dietro agli striscioni dei Consigli di Fabbrica e delle rappresentanze Sindacali provenienti da tutti i luoghi di lavoro, si unì un popolo, dagli studenti, ai pensionati, ai commercianti con le loro saracinesche abbassate al nostro passaggio, una mobilitazione generale che si protrasse per alcuni mesi fino a quando la Montedison non fu costretta a cedere concedendo quegli interventi di modifica rivendicati e impegni per investire in studi e ricerca di nuovi metodi di produzione e smaltimento, il Comune concesse l’autorizzazione e i lavoratori rientrarono in fabbrica.

Si concluse così questa prima fase della vertenza che aveva accomunato lavoro e ambiente e la loro compatibilità sostenibile, ma si può dire che l’iniziativa intorno al problema dello smaltimento di questi fanghi non si è mai conclusa ed ha visto nel tempo altri momenti alti di scontro e di confronto con i lavoratori e le istituzioni ancora protagonisti, dallo scarico in mare si è passati a quello a terra, sono stati fatti investimenti in impianti di essiccamento per renderli utilizzabili in altre attività, ed ancora oggi rappresentano un problema di estrema urgenza per individuarne una collocazione a terra sicura, duratura nel tempo ed ecocompatibile per assicurare la continuità al lavoro in quella fabbrica.

In questi anni anche attraverso queste esperienze è maturata la convinzione dell’inscidibilità del rapporto tra lavoro, ambiente e salute, ridurre al minimo e ove possibile eliminare gli effetti nocivi e ambientalmente impattanti in ogni attività produttiva è condizione indispensabile al modo di produrre e lavorare, lo è tanto più qui da noi se vogliamo che l’industria chimica continui ad essere compatibile e parte essenziale del nostro sistema economico integrato.

Occorre proseguire l’iniziativa perché le industrie della piana investano nella ricerca e nell’innovazione, perché si completino le bonifiche e si controllino le emissioni, per migliorare la qualità e la sicurezza delle produzioni a garanzia della salute e dell’ ambiente.

E’ con la qualità del prodotto che si ripagano anche i costi degli investimenti ambientali, è con la qualità che si conquistano i mercati e si batte la concorrenza, ne è un esempio il biossido di titanio del Casone, perché questo prodotto pur carico dei costi ambientali che gli abbiamo imposto certamente molto superiori a quelli di chi ancora nel mondo lo produce senza questi obblighi, regge e spesso batte ampiamente la concorrenza? Perché è la qualità che lo distingue, il nostro biossido è uno dei migliori prodotti al mondo, risultato della ricerca, dell’innovazione, del lavoro di qualità.

Queste sono le condizioni che dobbiamo pretendere. Non la precarietà, i bassi salari, lo sfruttamento indiscriminato delle risorse umane e ambientali, sulla qualità si fa la concorrenza, si creano ulteriori occasioni di occupazione e di lavoro qualificato, è alla qualità del lavoro che rispetta natura e ambiente che dobbiamo guardare con la memoria al nostro futuro.

Ringrazio l’Anpi per questa iniziativa ormai rimasta quasi la sola a chiamare al confronto collettivo nel deserto etico e culturale che ci circonda.

Saluto la compagna Luciana Castellina per me da sempre un mito, averla così vicina, ascoltarla è un’emozione.

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