Editoriale

Una vittoria che insidia l’Europa

Una vittoria che insidia l’Europa

Ci ostiniamo a dire post-fascista, sbagliando perché non si richiama al ventennio mussoliniana irriproducibile, ma a settanta anni di insidia della democrazia rappresentata dal Msi e dalle sue evoluzioni partitiche, in una litania di strategie della tensione, spesso interne agli apparati dello Stato e con legami internazionali, che ha disseminato di stragi la storia repubblicana

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 30 settembre 2022

Una stagione di disfatta a sinistra, insieme così nuova e tetra in Italia non c’è mai stata dal dopoguerra a oggi, con l’affermazione netta, a man bassa – alla fine grazie al ’iniquo Rosatellum,-non democratica, se si vedono i voti reali – e con risultati che sconvolgono non solo il quadro partitico italiano ma le stesse istituzioni democratiche sostenute dalla Costituzione nata dalla Resistenza antifascista. Perché la formazione vittoriosa a guida Meloni si ispira al neofascismo – ci ostiniamo a dire post-fascista, sbagliando perché non si richiama al ventennio mussoliniana irriproducibile, ma a settanta anni di insidia della democrazia rappresentata dal Msi e dalle sue evoluzioni partitiche, in una litania di strategie della tensione, spesso interne agli apparati dello Stato e con legami internazionali, che ha disseminato di stragi la storia repubblicana.

Attenzione però a vedere questo stravolgimento solo come riguardante l’Italia. Il terremoto infatti riguarda la stessa Europa unita fin qui realizzata che non vuole vederla perché c’è la guerra ucraìna nel pieno di una devastante escalation, con le pipeline colpite e le promesse russe che arrivano di guerra atomica e reazioni Usa «consequenziali».
Dei tre commenti che a caldo sono arrivati sulla vittoria di Fd’I, tre colpiscono in modo particolare: quello del premier polacco Morawiecki, con cui Meloni condivide tutto.

Dio, patria e famiglia, autoritarismo e filoatlantismo rilanciato alla luce del conflitto russo-ucraino; poi il portavoce della formazione Vox, filo-franchista, questa sì e apertamente nostalgica e perfino filo-mussoliniana, Santiago Abascal che vede nella vittoria dell’estrema destra di Fd’I «quelli che indicano la strada»; ma soprattutto il primo, semplice titolo del New York Times: «È uno spostamento a destra dell’Europa intera». Che fa il paio con la consapevolezza diffusa e l’evidenza che il traino dell’Europa è ormai diventato proprio l’est delle democrazie illiberali di Ungheria, Polonia, Repubblica ceca, con i Baltici tutti impegnati nella ricostruzione di una forte rilegittimazione delle rispettive sovranità nazionali, alimentando nazionalismo, xenofobia, razzismo e limitazioni dello stato di diritto. E che come ogni buon nazionalismo è ostile e si proclama superiore e antagonista a quello degli altri.

L’affermazione della destra estrema in Italia mette a nudo la condizione di estrema fragilità dell’Unione europea residua. Che fine ha fatto l’Unione europea voluta dai padri fondatori come Altiero Spinelli, sovranazionale e solidale, in economia, istituzioni, diritti, welfare, frontiere aperte, politica estera? O vacilla o non c’è, sotto il peso della crisi economica, pandemica e della guerra. Sforna montagne di denaro, che non olet e che può gestire con vantaggio anche ogni regime di «democratura» come direbbe Predrag Matvejevic.

Ma la percezione dei cittadini europei qual è? Se aumenta la povertà per tutti e la ricchezza per pochi, se la crisi energetica e le sanzioni tagliano i bilanci familiari, se il riarmo è la condizione primaria di spesa di paesi centrali nella tenuta delle fondamenta e della storia dell’Unione, come la Germania che con 200 miliardi impegnati nella Bundeshwer trapassa nella zona buia che cancella i tabù della sua storia troppo spesso infausta?

È dunque uno spostamento a destra dell’intera Europa, certo già in itinere ma che ora si radicalizza con l’avvento della destra estrema italiana arrivata al governo. Nessuno si faccia illudere dalle schermaglie iniziali «controlleremo il rispetto dei diritti», controproducenti, di Ursua von der Leyen sulla vittoria di Meloni, o le preoccupazioni veritiere della prima ministra francese. L’Unione europea che abbiamo conosciuto non esiste più. Traballa in vita solo grazie al sostegno di due grandi nazioni, Germania e Francia dove la leadership di Macron è in grave difficoltà, si può dire in netta minoranza politica nel Paese, anche per l’emergere a destra del fenomeno Marine Le Pen «fratello francese» di quello di Giorgia Meloni.

Fratelli d’Italia, nel solco delle «ragioni» neofasciste di questi settanta anni, altro non è adesso in chiave internazionale che la rappresentazione forte del sovranismo nazionalista italiano, erede rivisitato del populismo, e su basi ideologiche di estrema destra, che fa e farà subito dell’obiettivo di «fermare i migranti ad ogni costo» – del resto aiutata non poco dalla scelta di esternalizzazione delle frontiere della stessa Unione europea e dalla disparità vergognosa di trattamento tra profughi ucraini e quelli del disperato resto del mondo – una abile quanto violenta ragione di governo. Un sovranismo nazionale estremo in una forma forte e desueta che mai avevamo conosciuto, perché Salvini da questo punto di vista è un impostore con provenienza da una formazione separatista.

All’irruzione di questo nuovo nazionalismo, in una deriva della storia politica europea che vede in Svezia l’affermazione di una forza di estrema destra razzista, l’Ue non reggerà. Perché metterà in discussione, di fatto, i contenuti della Costituzione italiana che legano il Paese fondante come l’Italia all’Unione: l’articolo 11 che bandisce la guerra come mezzo di risoluzione delle crisi internazionali, potrebbe essere in pericolo, denunciava in questi giorni il costituzionalista Andrea Manzella sulle pagine del Corriere della Sera. Soprattutto grazie a Putin che con l’aggressione all’Ucraina alimenta la preparazione dell’Europa alla guerra. Giorgia Meloni cavalca questo disastro, tantopiù che la crisi economica pesante che si affaccia aiuterà la rivendicazione nazionalista in Europa, con la riapertura populista delle richieste sul Pnrr fino alla «revisione dei Trattati», da apparire lei come la «vera europeista» di fronte alla divisiva crisi energetica in atto.

E soprattutto sotto l’ombrello protettivo degli Stati uniti, perché dice Blinken: «L’Italia è preziosa alleata…siamo ansiosi di lavorare con il nuovo governo» a guida Meloni. In virtù della sua reiterata fedeltà alla Nato, e dove c’è l’Alleanza atlantica non c’è politica estera europea. È questo un portato politico costitutivo – l’atlantismo nella guerra fredda era anticomunista – del Msi nella sua molteplice storia antidemocratica, cuore e anima del «pensiero» che infiamma Giorgia Meloni.

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