Vera Gheno, parole contro la paura di cambiare
Intervista La sociolinguista interviene sull'evoluzione della lingua e sulle sue distorsioni strutturali e contingenti
Intervista La sociolinguista interviene sull'evoluzione della lingua e sulle sue distorsioni strutturali e contingenti
Sostiene Tullio De Mauro che i protagonisti della lingua sono i suoi parlanti; in linea con questa affermazione si muove il lavoro della sociolinguista Vera Gheno, specializzata in comunicazione e linguistica nella società digitale, nota ai più per la sua battaglia sui suffissi inclusivi e per la difesa della neutralità del genere e della vocale «schwa», e che si occupa nei suoi testi divulgativi di analizzare come cambia la lingua rispetto alla società. L’ha fatto di recente dalla lente della pandemia, un fenomeno di scala globale che sconvolto transitoriamente (e forse non solo) la società, con un instant book pubblicato in formato digitale nell’aprile del 2020 da Longanesi. Parole contro la paura è un dizionario che raccoglie i termini più ricorrenti tra quelli indicati dai suoi follower su facebook, dove lei stessa ha proposto loro di scrivere parole legate al virus. Ne abbiamo parlato qualche giorno fa al FiPiLi Horror Festival di Livorno.
«Facevamo il mercato nero del lievito di birra, le mascherine con la carta forno e gli elastici- racconta Vera Gheno spiegando la genesi dell’ebook-fiorivano i libri sull’alfabeto pandemico e non ero molto convinta, ma poi ho pensato di usare i miei follower e li ho coinvolti in questo gioco sociale, invitandoli a scrivere tre parole associate al momento che stavamo vivendo. Il risultato è stato sorprendente, anche perché pensavo che sarebbero emerse molte parole legate alla pandemia e alla paura, alimentata dalla pessima qualità dell’informazione fornita dai media in quei giorni. La gente ha citato invece parole intimiste come nonni, famiglia, guanti, mascherine, casa, silenzio, cane. Non un quadro tremendo, congruo alla narrazione terribilista che si era diffusa».
E il libro successivo, «Le ragioni del dubbio» (Einaudi, 2021), si lega in qualche modo a questo?
Sì, in fondo sì, è in continuità perché mentre lavoravo su quel tesoro di parole donate da 1500-2000 persone avevo notato la mancanza di dubbi. Nei mesi della pandemia, notavo quest’aspetto fastidioso della comunicazione: il mio problema era la mancanza di dubbi degli ignoranti e il dubbio perenne di quelli più preparati. Un dubbio piazzato male. La conoscenza è reticolare e a un certo punto ho pensato a Socrate e alla consapevolezza dei limiti delle proprie conoscenze. In mancanza di questa consapevolezza è impossibile far spazio ad altre conoscenze e credo che questo generi di riflesso sfiducia verso chi competente lo è davvero.
Credi che questo fenomeno sia dovuto all’orizzontalizzazione tipica della nostra epoca digitale, all’accesso generalizzato alla produzione di contenuti, o alla fretta – che condanni nella parte del tuo libro dedicata alla riflessione – con la quale formuliamo i pensieri, li scriviamo e li pubblichiamo?
L’espressione inglese brain fart spiega benissimo questo tipo di fenomeno. Al margine dell’espressione colorita, dopo 26 anni online mi accorgo subito di chi ho davanti; sono molti quelli che ti spiegano il tuo mestiere. Per quanto complicato, per me un sistema in cui tutte le persone comunicano è preferibile a uno in cui la comunicazione è in mano a un’élite, un’aristocrazia del tutto aleatoria; comunica chi ha il potere, lo sappiamo. Dobbiamo imparare a usare la voce pubblica, non credo che sia un processo degenerativo, anzi sono convinta che ci troviamo in una fase di passaggio nella quale stiamo imparando a usare a nostra voce pubblica. L’orizzontalizzazione porta però a dimenticare che la cultura si sedimenta, si costruisce progressivamente. Orizzontalizzare la conoscenza vuol dire, anche per questo, essere contestati attraverso fonti esigue, che non tengono conto della stratificazione che menzionavo.
Pensiamo alla letteratura sulla questione di genere nella lingua, alle Raccomandazioni sull’uso non sessista della lingua di Alma Sabatini, che è del 1986, e a chi già prima sosteneva che l’uso del maschile non fosse necessario ma conseguenza di una storia sociale e culturale divenuta poi linguistica. La risposta di Paolo D’Achille che tutti usano per liquidare la questione è molto ben strutturata, ma sembra essere l’unica in circolazione. Poi c’è la dimensione di immediatezza: la globalizzazione e internet ci permettono un accesso infinitamente più veloce all’informazione, ma l’informazione non è cultura di per sé. Se l’informazione non viene rielaborata, masticata, confrontata, messa in discussione, non stiamo facendo cultura. Credo che quello che ci manca sia la cultura della cultura.
Se come sostiene De Mauro, la lingua sono i suoi parlanti, perché incontriamo tante difficoltà ad adattare la lingua a quello che siamo diventati? Abbiamo paura o è una reticenza ideologica?
Intanto perché una proposizione come noi siamo la lingua non è così nota, perché continuiamo a pensare alla lingua come ce la insegna la scuola: è vero che lui non è corretto in posizione di soggetto, ma nessuno parla dicendo egli.
Torniamo alla definizione di norma linguistica, quale «norma accettata da una comunità di parlanti o per lo meno dalla sua maggioranza in un determinato momento storico e contesto culturale» (Claudio Giovanardi, Enciclopedia dell’italiano, Treccani, 2010). La parola chiave in questa definizione è accettata: noi aderiamo alla norma perché è la strada più semplice. Lo ricorda David Foster Wallace in un saggio su prescrittivismo e descrittivismo linguistico: aderiamo alla norma per cortesia nei confronti del prossimo, poiché tutte le volte che deviamo dalla norma creiamo all’altro un problema cognitivo o di comprensione. La lingua è potere. Siamo portati a pensare che le decisioni a livello linguistico le prendano i potenti, ma non è vero: la lingua non è dei potenti, né delle accademie, è effettivamente nostra, è l’uso della massa che cambia la lingua. Bisognerebbe avere una relazione più sana con la propria lingua e le proprie parole.
A proposito del rapporto tra lingua e potere, non credi che per esempio durante la pandemia ci sia stato un abuso verso noi parlanti, sottoposti al «legalese» da parte dei potenti, a una lingua che non eravamo assolutamente in grado di capire? Non ti è sembrato scorretto?
Sì, ma mi sono chiesta quanto fosse un’azione consapevole: in quel momento governava Conte e ho pensato che forse anche inconsciamente avesse trasportato la sua abitudine linguistica a un altro contesto. Nessuno l’ha fermato o corretto…e la comunità parlante era comunque in un momento di smarrimento. La parola congiunti ha spiazzato molte persone. La caratteristica lampante di quel legalese era essere lontanissimo dall’esperienza delle persone, estremamente escludente nei confronti di chiunque avesse un problema linguistico: ricordiamoci per esempio che i DPCM inizialmente uscivano solo in italiano, in un paese dove molte persone non parlano e non capiscono la nostra lingua. Non ci si è posti il problema di far capire alle persone che cosa stesse succedendo, un’offesa gravissima per la democrazia.
Sono state riesumate delle parole morte, come party, movida, è stato un momento di grande concrezione linguistica, che credo abbia fatto ancora più male alla relazione tra la gente e il potere, che ha il dovere di farsi capire. Ho avuto la sensazione che gli analfabeti di ritorno fossero in realtà quelli arroccati nelle loro lingue settoriali e seduti ai posti di comando. In Italia nessuno pensa mai alla divulgazione e alla sua importanza, e continua a esistere uno scarto enorme tra il sapere specialistico e le persone. Manca un anello essenziale tra politica e polis, tra gli esperti e la gente comune. Per esempio non era così strano che l’OMS dicesse prima una cosa e dopo un’altra: avremmo dovuto spiegare alla gente che in ambiente scientifico si procede per errori – vedi lo schema trial and error – non per certezze; si sbaglia per costruire la conoscenza.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento