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Addio a John Peter Rhys Williams, fuoriclasse del rugby

Addio a John Peter Rhys Williams, fuoriclasse del rugbyJohn Peter Rhys Williams

Sport Morto a 78 anni il grande giocatore gallese. Un palmarès che pochi possono vantare: sei titoli nel Cinque Nazioni di cui tre Grandi Slam, 6 Triple Crown, 55 presenze con la maglia dei dragoni, 8 con i British & Irish Lions nei due trionfali tour del 1971 (Nuova Zelanda) e Sudafrica (1974).

Pubblicato 11 mesi faEdizione del 11 gennaio 2024

Sicuramente il più bel paio di basette nella storia del rugby. E poi i calzettoni calati sulle caviglie, la lunga chioma al vento, la corsa dall’andatura possente. Forte, coraggioso, indomito. Gallese, e questo ha la sua importanza. Un palmarès che pochi possono vantare: sei titoli nel Cinque Nazioni di cui tre Grandi Slam, 6 Triple Crown, 55 presenze con la maglia dei dragoni, 8 con i British & Irish Lions nei due trionfali tour del 1971 (Nuova Zelanda) e Sudafrica (1974). Ci sarebbe anche la carriera da giocatore di tennis che comprende un titolo britannico junior conquistato a 17 anni a Wimbledon, anno 1966, battendo in finale David Lloyd, e la vittoria al Centennial Junior Open di Ottawa nello stesso anno. John Peter Rhys Williams, per tutti e per sempre JPR (gei-pi-ar, l’acronimo che riportava le iniziali del suo triplice nome), se n’è andato due giorni fa a 74 anni, ucciso da una meningite batterica. Uno dei più forti giocatori della storia, sicuramente nel suo ruolo, fullback, estremo, l’ultimo uomo, quello che porta la maglia numero 15 e che raccoglie palloni nella terra di nessuno e poi suona la carica. Sul gradino più alto del podio tra i migliori estremi troviamo lui in condominio con George Nepia, il primo fuoriclasse maori che giocò però mezzo secolo prima con gli “Invincibili”; tutti gli altri, compresi i fortissimi, stanno più in basso.

JPR WILLIAMS era nato a Bridgend, una piccola città del Galles del sud, snodo importante dei bacini minerari, nel 1949. Mamma e papà entrambi medici e anche per lui si prospettava un futuro nella medicina. Alla professione di chirurgo ortopedico sarebbe poi arrivato, non prima di aver esaurito la sua sporting life. Quando, già campione in erba, fu chiamato a scegliere tra tennis e rugby, scelse il rugby perché era una disciplina amatoriale e gli avrebbe lasciato il tempo per studiare. Gioca nel Bridgend, poi nel St Mary’s Hospital (una delle squadre degli studenti di medicina), infine nei London Welsh, la squadra dei gallesi di Londra, gli “Esiliati”. Lì JPR si ritrova in ottima compagnia: con lui in squadra ci sono Gerald Davies, John Taylor, Merwyn Davies, John Dawes, il meglio del rugby di quegli anni. Il 1° febbraio 1969 fa il suo esordio in nazionale a Murrayfield contro la Scozia: da quel giorno la maglia numero 15 dei dragoni è sua per i successivi dodici anni. Chiude la carriera internazionale a 31 anni, ancora a Murrayfield: è il 7 febbraio 1981. In mezzo c’è una carriera incredibile, un’interpretazione del ruolo che non ha precedenti. JPR non è soltanto l’ultimo baluardo difensivo, è uno che attacca, palla in mano, forte di un fisico potente e di un coraggio che suscita ammirazione. Di sé dirà poi: “Ero un flanker che giocava nel ruolo di estremo e non mi piaceva calciare la palla: perciò dovevo tenermela e correre in avanti”. Nei placcaggi è impressionante: rimane nelle cineteche quello sul francese Jean-François Gourdon a un metro dalla linea di meta, impattato con la spalla e mandato gambe in aria – oggi lo punirebbero con un giallo.

“Ero un flanker che giocava nel ruolo di estremo e non mi piaceva calciare la palla: perciò dovevo tenermela e correre in avanti”

AGGRESSIVO ma leale. E temutissimo: con lui gli All Blacks usavano sempre le maniere forti. Nella celebre meta segnata da Gareth Edwards, quella passata alla storia come The Try, durante il match tra Barbarians e Nuova Zelanda, un ricamo collettivo di finte, side-steps, virtuosi passaggi e corse perdifiato, c’è un posto anche per JPR che si becca due placcaggi al collo da staccare la testa e lui niente, come se nulla fosse, come se nelle vertebre avesse l’acciaio. Nel 1978, ancora un match con gli All Blacks e ancora un fallo brutale, una tacchettata in piena faccia che gli recide un’arteria facciale. Esce sulle sue gambe zampillando sangue (qualcuno, esagerando, scriverà che in quell’occasione JPR “ne perse almeno due pinte”) e si fa ricucire dal padre, medico della squadra: venti minuti rientra in campo con 30 punti di sutura in faccia e una fasciatura per terminare il match. Cawyn James, che lo allenò nel tour che i Lions vinsero in Nuova Zelanda, di lui diceva che nessun altro giocatore aveva uno spirito competitivo come JPR. Forse il record che lo ha inorgoglito di più sono i dieci test-match contro l’Inghilterra, tutti vinti. Di sicuro è stato una garanzia per i suoi compagni di squadra e in particolare per il Galles degli anni Settanta che giocava un rugby tra i più belli di sempre; e a rendere quel gioco ancor più bello era la certezza che là dietro a vigilare c’era lui, che da quelle parti gli avversari non passavano. Quello era il rugby, quello era il suo rugby.

 

 

 

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