Editoriale

Ambasciate di pace

Missioni di guerra Niente vale di più della testimonianza di pace diretta. Questo ci insegna il sindaco di Messina Renato Accorinti che ieri, nelle stesse ore in cui il presidente Napolitano ricordava che […]

Pubblicato circa 11 anni faEdizione del 5 novembre 2013

Niente vale di più della testimonianza di pace diretta. Questo ci insegna il sindaco di Messina Renato Accorinti che ieri, nelle stesse ore in cui il presidente Napolitano ricordava che la coperta è corta per le spese sociali ma che non bisogna lesinare sulle spese militari, ricordava in piazza a generali e prelati, nella Festa delle Forze armate e dei «nostri ragazzi», che bisogna «trasformare gli arsenali in granai». Non citava Marx ma Pertini. E indicava ad ognuno di noi il valore della protesta personale. Anche nell’epoca delle verità digitali del Datagate.

Così ho pensato a quando Lello portava il pupazzo da bruciare che era il presidente americano Johnson, Angelino la vernice rossa per i vetri del Centro Usis che stava appena di fronte, a me toccava portare la bandiera vietnamita,: dal 1964 al 1974 una generazione di giovani comunisti, poi del movimento studentesco e ancora dei gruppi a cominciare dal Manifesto, si è data appuntamento davanti all’ambasciata americana a Roma (o nei paraggi, per non dare nell’occhio…). Per protestare contro la guerra in Vietnam e le tante altre imprese belliche imperiali e neocoloniali, ma anche con la ferma intenzione di denunciare che nell’edificio di Via Veneto si annidava un potere forte extraterritoriale, che controllava l’Italia snaturandone dall’alto e dall’interno la vita democratica faticosamente conquistata con la Resistenza, un potere oscuro che, grazie ai conniventi governi italiani, aveva disseminato il nostro territorio di basi militari e atomiche, il tutto suggellato da uno scellerato patto militare atlantico già nel 1949, tramando contro i nostri interessi.

Andiamo all’ambasciata… chissà se ci fanno arrivare all’ambasciata americana… tiriamo le molotov oppure no a questa centrale di spionaggio e terrore…yankee go home…la polizia carica davanti all’ambasciata Usa… Una litania di cronaca e rivendicazioni d’indipendenza che a Roma ebbe una sua creativa origine nelle proteste contro la venuta del presidente Eisenhower nel 1959, nello slogan «Ikke…Ikke…vattene pe’ cicche» . E che è continuata negli anni Ottanta e fino ai nostri giorni contro le ultime avventure militari. La metafora e insieme il mito dell’ambasciata americana hanno suggellato l’immaginario di almeno quattro generazioni di pacifisti. Tutto questo armamentario che riecheggia biografie, battaglie, storie personali, passioni, memorie, guerre reali e sanguinose, sembra in questi giorni andare tragicomicamente in frantumi. E non certo perché gli Stati uniti d’America abbiano smesso di fare guerre e di spiare il mondo intero, di condizionarne il destino anche nel tempo in cui appare evidente che non sono più in grado di farlo. Proprio no, visto l’esplodere del caso Datagate grazie alla diserzione democratica di Edward Snowden.

Il fatto è che quello che Lello, Angelino ed io facevamo con passione fa semplicemente ridere di fronte al fatto che ora ad accusare il ruolo antidemocratico delle ambasciate americane nel mondo non sono giovani comunisti con le pezze al culo, ma semplicemente Keith Alexander, il capo di tutta l’Intelligence degli Stati uniti d’America. Il quale interrogato nella serissima sede di Baltimora del Council on Foreign Relations dall’ex ambasciatore americano in Romania James Carew Rosapepe su quali fossero state le giustificazioni di sicurezza per spiare i leader europei alleati, ha risposto incazzato: «Come ambasciatore lei la risposta dovrebbe conoscerla. Noi siamo solo operativi, ad avanzare richieste su personaggi da sorvegliare sono i responsabili politici. Tra questi, pensi un po’, ci sono proprio gli ambasciatori».

È facile commentare che così facendo si è aperto il baratro della guerra intestina statunitense sulle responsabilità dei politici, non solo repubblicani ma anche democratici e a partire da Hillary Clinton che, a dire il vero, era già precipitata con l’affaire Bengasi dell’11 settembre 2012 insieme al capo della Cia Petraeus. Come è facile notare quanto sia ridicola la promessa del segretario di Stato John Kerry che ammette che sì…sorry…un po’ con le intercettazioni ci siamo allargati ma…non lo faremo più… quando, nelle stesse ore, la guerra dei droni Usa ha ucciso in Pakistan Hakimullah Meshud, l’uomo che stava portando i talebani al tavolo delle trattative con il nuovo Pakistan di Shariv.

Ben più difficile è vedere che l’Italia, pur spiata e deviata, conserva un imperturbabile silenzio atlantico. Prepara strapaesane primarie piddì, congressi, leadership… Tutte «guerre pacioccone» che non parlano mai del Datagate. Un teatrino di marionette che ha cancellato la Costituzione contraria alla guerra nelle avventure atlantiche del militarismo umanitario.

Comunque non sono questi gli elementi significativi. Il fatto più grave è un altro. Che figura ci facciamo Lello, Angelino ed io ora che a manifestare e a gridare yankee go home… Via la Nato dall’Italia, Via l’Italia dalla Nato a via Veneto davanti all’ambasciata Usa a Roma è arrivato anche il capo dei servizi segreti americani?

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