Campo da basket senza confini
Dal Libano all'Europa Dalla squadra femminile di pallacanestro di Shatila, casa per migliaia di rifugiati palestinesi, e dagli All Reds romani è partita una rete di sport popolare. Contro le frontiere fisiche e mentali: «Basket Beats Borders dà alle ragazze palestinesi l’occasione per uscire. Perché uscendo cambia l’orizzonte che qui a Beirut è quello limitato del campo»
Dal Libano all'Europa Dalla squadra femminile di pallacanestro di Shatila, casa per migliaia di rifugiati palestinesi, e dagli All Reds romani è partita una rete di sport popolare. Contro le frontiere fisiche e mentali: «Basket Beats Borders dà alle ragazze palestinesi l’occasione per uscire. Perché uscendo cambia l’orizzonte che qui a Beirut è quello limitato del campo»
Il campo palestinese di Shatila ha confini. L’Europa ha confini. E anche un campo di basket li ha. Ma succede che il perimetro di un campo da pallacanestro diventi una via di uscita e di opportunità. Succede a Beirut, a Roma, a Bilbao, a Baghdad, presto a Madrid.
È la rete partita in questi ultimi anni da Shatila, campo profughi palestinese sorto nella capitale libanese nel 1949: un dedalo di viuzze che collegano le porte delle case e fili dell’elettricità che collegano i tetti. Ci vivono 22mila persone, stimate, in un chilometro quadrato. Per lo più palestinesi, ma anche libanesi poveri e da qualche anno tanti rifugiati siriani, palestinesi fuggiti due volte.
SHATILA È UN NOME che ricorda massacri impuniti, quello del 1982 compiuto dai falangisti cristiani sotto la vigile supervisione dell’esercito israeliano che aveva invaso Beirut. Shatila fa venire in mente affollamento, discriminazione, impossibilità per chi vive e cresce qui da generazioni intere di accedere a decine di posti di lavoro, di comprarsi una casa, di uscire dai confini del campo.
Ma arriva il basket. Prima con la testardaggine di Majdi, palestinese rifugiato in Libano, originario del villaggio di Amka ad Akka, attaccato nel 1948 dalle milizie paramilitari sioniste, svuotato come altri 530 villaggi palestinesi e poi distrutto. E poi con l’idea di David, italiano arrivato a Beirut nel novembre 2016: così è nato Basket Beats Borders, intorno alla squadra femminile di pallacanestro di Shatila, la Real Palestine Youth.
«SONO L’ALLENATORE del Palestine Youth Club – ci dice Majdi al telefono – È nato nel 2005, nel 2015 abbiamo creato una squadra femminile. Del club fanno parte circa 175 giovani, tra donne e uomini. Attraverso lo sport lavoriamo sulla consapevolezza di sé e delle proprie capacità, sui diritti delle donne: lo sport può insegnare come vivere e con quali strumenti. Le ragazze hanno il diritto di giocare. Abbiamo un grande team, il solo femminile a Beirut». Che deve superare non poche difficoltà, a partire dagli spazi ristretti del campo.
Si gioca a Qasqas, a 25 minuti da Shatila, in un campo comunale. «Le difficoltà del vivere a Shatila riguardano ogni aspetto della quotidianità. Ogni campo in Libano ha problemi di elettricità e di acqua, paghiamo il doppio ma continua a mancare. I giovani non trovano lavoro e molti di loro abbandonano gli studi perché non hanno accesso a molte professioni in quanto palestinesi. Dopo la laurea i loro sogni vengono uccisi, le porte si chiudono. Non abbiamo il diritto di vivere con dignità».
«Lo sport è una via di uscita – continua Majdi – Le ragazze e i ragazzi insistono, non mollano, continuano a venire nonostante le difficoltà. Basket Beats Borders ci ha permesso di uscire dal Libano e conoscere le esperienze di altri paesi. Un risultato incredibile: la legge libanese impedisce ai palestinesi, apolidi, di accedere alla lega, non possiamo giocare come professionisti».
L’idea di un basket contro le frontiere è arrivata tra il 2016 e il 2017. A Beirut dal novembre di tre anni fa dopo un anno in Grecia tra Atene e Idomeni, David ha incontrato Majdi a Shatila. L’anno dopo il primo scambio, a Roma: le ragazze del Real Palestine sono arrivate nella capitale.
«IN GRECIA HO VISTO quello che accadeva ai confini europei – ci spiega David – e toccato con mano il concetto di frontiera come limite invalicabile dalle persone. L’idea di Basket Beats Borders è nata per favorire gli incontri, la condivisione di esperienze e ora sta prendendo in autonomia altre vie, stabilendo legami con altre organizzazioni regionali come Sport Against Violence in Iraq e avviando un progetto di borse di studio per i ragazzi».
Nel primo scambio a Roma le ragazze sono state ospiti degli All Reds Basket, squadra popolare di Acrobax, contattata nel 2017 da David: «L’idea era nata intorno a uno scambio tra Roma e Beirut – ci racconta Marco Necci degli All Reds – per dare un’opportunità alle ragazze palestinesi di uscire e confrontarsi con altre realtà sportive. Sono venute nel giugno 2017: abbiamo aperto ad altre realtà popolari romane, alle squadre femminili di Atletico San Lorenzo e Les Bulles Fatales dell’ex Snia. Insieme, con iniziative di autofinanziamento, abbiamo coperto le spese dei visti e dei voli. Abbiamo preparato un programma di allenamenti e di partite».
«In Italia le ragazze si sono allenate, hanno giocato e hanno visitato realtà come Lucha y Siesta e la Casa internazionale delle donne – aggiunge David – Siamo andati anche nei Paesi Baschi, 14 giorni in cui hanno giocato con squadre femminili locali e conosciuto la nazionale basca di basket. Se tutto va bene nel 2020 andremo a Madrid».
Qui è nata una lega parallela a quella ufficiale, una lega alternativa auto-organizzata che superi il limite della cittadinanza: a Beirut come in Italia gli apolidi non possono iscriversi alla lega. Le ragazze del Real Palestine possono giocare solo amichevoli con i team libanesi.
NEL 2018 LA SQUADRA di Shatila è tornata a Roma, mentre lo scorso ottobre gli All Reds sono volati a Beirut. In mezzo sono sorti altri progetti: «L’ultimo è la costruzione di un centro di aggregazione giovanile a Shatila, con l’aiuto di Majdi e una campagna di crowdfunding – continua Marco – A Shatila non c’è spazio per un campo da basket, ma si possono fare attività sportive all’interno. Il centro è volto a questo, ma anche a fornire spazi per lo studio dopo scuola e per la proiezione di film. È stato appena costruito, ma è ancora vuoto. Il prossimo passo sarà far arrivare i materiali, i computer, un biliardino, un tavolo da ping pong, attrezzature per il pugilato, tavoli per i compiti».
Al centro sta lo sport popolare e la sua forza di inclusione: «Ci concentriamo su questo e non tanto o non solo sul miglioramento tecnico – continua David – Il basket è un mezzo per incontrarsi, stare fuori, parlare di certi argomenti, viaggiare. Le ragazze sono molto contente di allenarsi in modo più professionale con allenatori e allenatrici professionisti, ma anche per l’occasione per uscire. Perché uscendo nascono interessi e idee che stando a Beirut sarebbero rimasti in un angolo, come il proseguimento degli studi. Cose che vengono di conseguenza all’obiettivo originario del progetto. Cambia completamente l’orizzonte che qui a Beirut è quello limitato del campo. Si pensa più in grande».
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