Internazionale
Che almeno la musica sia libera
Palestina Tra il rap politico e i maestri del passato, un gruppo di giovani palestinesi cerca una terza via: tornare all’origine del suono per riprendersi l’arte, prigioniera dell’occupazione israeliana. Mantenere viva l’identità musicale palestinese è già un atto politico: liberare la musica è resistenza, perché è l’occupante che l’ha imprigionata
Tarek Abu Salameh (a sinistra) a Dar al-Musica – Chiara Cruciati
Palestina Tra il rap politico e i maestri del passato, un gruppo di giovani palestinesi cerca una terza via: tornare all’origine del suono per riprendersi l’arte, prigioniera dell’occupazione israeliana. Mantenere viva l’identità musicale palestinese è già un atto politico: liberare la musica è resistenza, perché è l’occupante che l’ha imprigionata
Pubblicato quasi 7 anni faEdizione del 18 febbraio 2018
Chiara CruciatiBEIT SAHOUR (CISGIORDANIA)
Sono da poco passate le 8 di mattina, è tempo di Fairouz. Le note delle canzoni della cantante libanese, insieme all’egiziana Umm Kulthum la più nota voce femminile del mondo arabo, paiono risuonare per le strade palestinesi, colonna sonora quotidiana delle prime ore del giorno. La tradizione è rispettata da tutti: Fairouz si ascolta al mattino. In auto, nei servis (i taxi collettivi che collegano, non senza difficoltà, la Cisgiordania), al bar, in ufficio. L’amore per la musica in Palestina si declina in modi diversi, di certo nell’ostinazione ad ascoltare il Trio Jubran che ripropone i pezzi di Marcel Khalife...