Election Day, dal film alla realtà
Oggi l’Election day è il finale di un lungo film iniziato oltre un anno fa, e anche prima. Ritornare con la memoria ai suoi inizi, e a quel che poi […]
Oggi l’Election day è il finale di un lungo film iniziato oltre un anno fa, e anche prima. Ritornare con la memoria ai suoi inizi, e a quel che poi […]
Oggi l’Election day è il finale di un lungo film iniziato oltre un anno fa, e anche prima. Ritornare con la memoria ai suoi inizi, e a quel che poi è successo; rammentare il copione che la maggioranza di politologi, giornalisti e protagonisti aveva scritto.
sarebbe andato come loro avevano deciso: ricordare tutto questo, aiuta a capire quel che succederà stanotte, e da domani in poi, a prescindere da chi sarà il vincitore, diventando il 45 presidente (probabilmente Madam President) degli Stati Uniti. Ricordate Jeb? E Hillary già incoronata nominee del Partito democratico, prima ancora che annunciasse la sua candidatura? Il film scritto allora dall’establishment e dai media era la storia di un duello tra dinastie, i Bush e i Clinton.
Peccato fosse il copione di una fiction. Ecco, solo un anno fa la maggioranza di chi è in politica o s’occupa di politica in America aveva in testa una trama logora.
A conferma della loro distanza dagli americani che non vivono di politica ma che decidono la politica, ecco poi i ripetuti abbagli su Donald Trump, schiacciato dalla sua esuberanza politicamente scorretta o messo alle corde da avversari spietatamente innocui. Ed ecco la pertinace negazione dell’evidenza di un’altra candidatura democratica, perfino munita di maggiori chance di vittoria, non necessariamente quella della predestinata Hillary. La candidatura di un settantaquattrenne del Vermont, socialista e orgoglioso di esserlo, che avrebbe raccolto più di tredici milioni di voti, pari al 43%, prevalendo in 22 Stati.
Fino ad arrivare a ridosso dell’Election Day, in un clima altamente enigmatico, tra folle di elettori che ricorrono al voto anticipato – oltre 40 milioni, un fenomeno sorprendente – e sondaggi troppo ballerini per essere presi sul serio, segno fino all’ultimo dell’incapacità del sistema mediatico-politico di leggere una realtà, peraltro in molti aspetti tutt’altro che indecifrabile.
Si pensi solo allo studio dell’autorevole Pew che un anno fa – sì, mentre si sproloquiava di Jeb e dell’inevitable Hillary – rilevava come il 41% dei giovani sotto i 35 si dichiarasse indipendente, solo il 35% democratico e un altro 22% repubblicano. Non è la maggioranza degli elettori attuali, ma ne è una quota significativa ed è quella che s’attiva e si mobilita, non limitandosi a deporre il voto nell’urna. Ci parla di un futuro già iniziato che va oltre i due partiti storici dell’America novecentesca e delle sue ultime propaggini. Sono i giovani che avrebbero affollato i comizi di Bernie Sanders e avrebbero dato una spinta poderosa alla sua candidatura e alla sua causa politica.
Già, i comizi. La vendetta della vecchia politica. Dall’apparizione di Obama in poi, i rally, i grandi comizi sono diventati una caratteristica saliente. Anche il vecchio porta a porta. Sì, la partecipazione. Non solo attraverso la rete e i social, ma quella d’un tempo, troppo in fretta dichiarata morta. Sì, saranno ancora troppo pochi gli elettori che sceglieranno il prossimo presidente americano, ma non significa per questo che la politica in America sia in una crisi irreversibile. È in crisi una certa politica, quella conosciuta, quella dell’intreccio con Wall Street e con l’apparato energetico-militare. È in crisi il Partito repubblicano. Il successo Trump ne ha messo a nudo l’inconsistenza organizzativa e ideologica, giunta a un punto tale che – sia in caso di vittoria del magnate, che avverrebbe con l’ostracismo dell’establishment repubblicano, sia a maggior ragione con la sua sconfitta – non avrebbe neppure la base minima per ricostruirsi. Potrebbe letteralmente sparire.
È in crisi il Partito democratico che, negli anni di Obama, e per sua responsabilità, non si è rinnovato, riproponendo la candidatura di un personaggio simbolo della sua cristallizzazione in apparato burocratico legato ai poteri forti.
Hillary Clinton ne è dunque l’ultima rappresentante. Significa necessariamente che questo suo retroterra condizionerà la sua azione presidenziale? È l’ipotesi che molti temono e che mettono in conto anche quelli che la voteranno solo perché considerano Trump un rischio maggiore. Non si pecca però di eccessivo ottimismo se si ricorda che i voti di Sanders contano e che Sanders saprà farli pesare.
E, non ultimo, sarà convenienza di Madam President farvi conto, di fronte alla prevedibile, incontinente, rabbiosa opposizione di un Partito repubblicano sconfitto.
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