Editoriale

Gas e petrolio, il «prezzo politico» della guerra

Gas e petrolio, il «prezzo politico» della guerraIl Nordstream1 su un cartellone a Lubmin, Germania – Ap

Crisi ucraìna Finora ci avevano detto e ripetuto che soltanto i mercati potevano decidere i prezzi, con il dogma inviolabile della domanda e dell’offerta. Vuoi vedere che si erano sbagliati?

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 4 settembre 2022

Con la guerra in Ucraina scatenata da Putin scopriamo che gas e petrolio russi possono avere un prezzo «politico», così almeno sembra da quanto deciso al G-7 e dal dibattito in corso a Bruxelles. E perché soltanto calmierare le materie prime energetiche russe? Perché non estenderlo ad altri beni primari, visto che nel mondo si muore ancora di fame? Finora ci avevano detto e ripetuto che soltanto i mercati potevano decidere i prezzi, con il dogma inviolabile della domanda e dell’offerta.

Vuoi vedere che si erano sbagliati?

In realtà non è così. Non ci siamo sbagliati. Si possono toccare soltanto gas e petrolio dei russi non quello, per esempio, degli americani o delle monarchie arabe assolute del Golfo. Certo in questo caso si vuole sanzionare Mosca e limitare le entrate delle sue esportazioni per colpire la capacità dell’autocrate Putin di continuare la guerra in Ucraina. Ma nessuno oserebbe calmierare il petrolio saudita che è in guerra in Yemen e anche il maggiore acquirente di armi americane e occidentali. Non saremmo diventati improvvisamente “pacifisti”? Ma diminuire la capacità di spesa bellica degli stati potrebbe essere un inizio per limitare la corsa agli armamenti, che è esattamente il contrario di quello che sta avvenendo oggi, anzi la Nato ci chiede di aumentare la spesa militare proprio mentre le bollette dell’energia vanno alle stelle per famiglie e imprese.

Guai, poi, a chi possa essere tentato di esporre pensieri simili dalle nostre parti: verrebbe immediatamente additato come un sabotatore della nostra industria militare che comunque ha migliaia di dipendenti. E a proposito della nostra industria bellica e dei “valori” occidentali che ci vengono continuamente sbandierati: nessuno di chi ha governato in questi anni e da chi sta al comando in Europa è venuta neppure per sbaglio l’idea di congelare le forniture di armi all’Egitto del dittatore Al Sisi il cui apparato di sicurezza ha massacrato Giulio Regeni e ogni oppositore democratico. Anzi non sia mai, perché il generale-presidente privato delle nostre armi si rivolgerebbe ai concorrenti e tra questi anche la Russia. Per di più l’Egitto è anche un fornitore di gas, quindi non si tocca.

Però qualche domandina su come mai finiamo in mano ai dittatori come Putin e Al Sisi o ai monarchi del Golfo – riciclati ormai dentro al Patto di Abramo con Israele – dobbiamo farcela. Nel 2020 il consumo di gas in Europa era di 380 miliardi di metri cubi, 145 venivano dalla Russia. Ci rifornivamo dai russi perché era più comodo il trasporto con le pipeline e il gas di Mosca costava meno. Lo facevano tutti, dalla Germania all’Italia, ai Paesi dell’Est Europa. Una dipendenza così evidente che era diventata un dato di fatto che non andava giù soprattutto agli americani che infatti sono stati quelli che, prima della guerra, avevano minacciato di sanzionare il Nord Stream 2 tedesco. Non solo gli americani hanno il loro gas da vendere ma controllare le rotte delle forniture energetiche mondiali resta un obiettivo strategico di Washington irrinunciabile. Per questo non se ne andranno mai dal Golfo, dove passa il 40% del petrolio mondiale, dove tengono la flotta e le basi militari.
Se andiamo a scavare sulle proposte annunciate dal G-7 e dalla Ue in realtà ci accorgiamo che il tetto ai prezzi energetici ha delle conseguenze strategiche assai rilevanti: la maggiore è che il conflitto invece di essere contenuto rischia di allargarsi.

Cosa vogliono i Sette Grandi? Il G-7 intende applicare “urgentemente” un tetto al prezzo di acquisto del petrolio russo – settore dove Mosca guadagna tre volte di più che dall’export di gas – e incoraggia un’ “ampia coalizione” di Paesi a partecipare all’iniziativa, volta a limitare la capacità di Mosca di finanziare la sua invasione dell’Ucraina. Ma come ottenere che questa “coalizione di volonterosi” anti-russa funzioni? Con le sanzioni cosiddette secondarie. Ovvero verranno sanzionati e puniti i Paesi e gli operatori che acquisteranno petrolio da Mosca con una quotazione superiore al tetto stabilito. Questo significa mettere in atto sanzioni economiche e finanziare del genere di quelle applicate oggi all’Iran che è stato di fatto isolato dal sistema bancario occidentale. Ora siccome tra i maggiori acquirenti di petrolio russo ci sono cinesi e indiani appare chiaro che le onde sismiche del conflitto ucraino siano destinate ad ampliarsi. Senza contare che nel cosiddetto campo occidentale e della Nato ci sono già due anomalie, quella della Turchia e di Israele che non applicano sanzioni alla Russia di Putin.

Da Mosca Erdogan importa gas, petrolio e anche sistemi d’arma, ma nessuno osa toccarlo perché il Sultano delle Nato, che si propone costantemente da mediatore con Putin pur vendendo i suoi droni a Kiev, è diventato il vero guardiano del Mediterraneo orientale dove decide, con mosse provocatorie, anche dove si tira fuori il gas offshore. Senza contare i ricatti sui curdi e le continue violazioni dei diritti umani e civili, su cui Finlandia e Svezia dovrebbero passare sopra per avere il suo via libera a entrare nella Nato. Quindi puniamo pure l’autocrate Putin ma qualche volta ci piacerebbe vedere sanzionato anche qualcun altro: qui il prezzo politico che si paga per la guerra è sempre quello del doppio standard.

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