Editoriale

Germania, un cambiamento senza bussola

Germania, un cambiamento senza bussolaIl Reichstag a Berlino – Ap - LaPresse

Prima ancora di cimentarsi nel risiko delle possibili coalizioni converrà chiedersi quale paese e quale clima sociale rispecchi il risultato delle elezioni federali in Germania della scorsa domenica. Per quel […]

Pubblicato circa 3 anni faEdizione del 28 settembre 2021

Prima ancora di cimentarsi nel risiko delle possibili coalizioni converrà chiedersi quale paese e quale clima sociale rispecchi il risultato delle elezioni federali in Germania della scorsa domenica. Per quel tanto che l’espressione di un voto sia in grado di farlo.

A partire dalle due sorprese che ci ha riservato. Ovverosia la miracolosa ripresa di una agonizzante socialdemocrazia e il mancato sfondamento dei Grünen, in un contesto fortemente dominato dalle loro tematiche, nonostante il raggiungimento del miglior risultato della loro storia di partito.

Che il cambiamento climatico e la tutela dell’ambiente occupino i primi posti tra le preoccupazioni dei tedeschi è una circostanza assodata. Ma altrettanto forte resta il timore che un intervento radicale su questo terreno comporti un impatto negativo sulla struttura industriale e produttiva della Germania. Cosicché un governo a preponderanza verde avrebbe rischiato di attivare una fase di transizione troppo rapida e traumatica per milioni di lavoratori e lavoratrici impiegati nell’industria tradizionale.

Tutto sommato la percezione della Germania come un modello di successo in grado di garantire la continuità di accettabili livelli di benessere è ancora piuttosto radicata.

Di certo la crescita delle diseguaglianze sociali si è fatta sentire ed è stata messa a tema, così come le numerose falle nel sistema di Welfare. Ne è conseguita la speranza (o la credenza) che un rafforzamento della socialdemocrazia, pur logorata da anni di cogestione subalterna del potere con la Cdu-Csu, avrebbe potuto correggere senza troppi traumi queste tendenze negative. Essendosi peraltro offuscata la memoria di quella feroce riforma liberista del mercato del lavoro che proprio un governo socialdemocratico, quello di Gerhard Schröder, aveva predisposto e messo a disposizione dei futuri successi cristiano-democratici.

Non è certo stata nessuna forma di paura a influire sui comportamenti elettorali: né quella dell’immigrazione, né quella delle presunte mire europee sui portafogli dei tedeschi, né quella di pericolosi squilibri geopolitici, né quella di un uso illiberale delle politiche di contenimento della pandemia e nemmeno, fino in fondo, quella della catastrofe climatica. Piuttosto una generica insofferenza e una diffusa incertezza che si sono riflesse nella accresciuta frammentazione del voto.

E, soprattutto, nell’accelerazione di quel declino della Cdu in corso ormai da tempo. Che cosa sarà questo partito dopo Angela Merkel resta un’incognita. Quale forma assumerà la politica conservatrice? Quale equilibrio tra antiche certezze e bisogni di innovazione? Quali capacità di mantenere la coesione sociale? Quale bilanciamento tra interesse nazionale e impegno europeo?

A questi quesiti la Cancelliera sapeva dare risposte contingenti, talvolta infelici, talaltra contraddittorie, spesso dilatorie, ma generalmente capaci di impedire conflagrazioni e di evitare vicoli ciechi. Ma senza elaborare una dottrina, una linea di condotta, un’immagine politica non personale da trasmettere a chi le sarebbe succeduto.

Con destrezza era riuscita a scippare alla Spd tematiche sociali, frammenti di programma e tonalità progressiste con conseguenti travasi elettorali a proprio favore. Ma ora gli ammiratori della Mekel «progressista», poco fidandosi della successione, tornano nella casa socialdemocratica. La quale rappresenta oggi la più rassicurante combinazione tra continuità e rinnovamento, tra credo liberista e correzioni sociali.

La tradizione politica del moderatismo germanico è in buona parte nelle mani della Spd e le ipotesi di coalizione cui può guardare non fanno davvero paura a nessuno.

Ma nemmeno suscitano grandi entusiasmi.

Il vero e proprio tracollo della Linke come partito nazionale e la sua lenta erosione nelle roccaforti dell’est dimostrano una volta di più il perdente esorcismo della formula «di lotta e di governo». A maggior ragione quando la lotta langue e le concrete possibilità di governo si fanno aleatorie. Senza contare le lacerazioni che da tempo attraversano il partito contrapponendo invece l’un compito all’altro, l’identità all’incisività politica.

Nei Länder orientali è la Spd ad accrescere la sua credibilità governativa e la Afd, congelata in un radicalismo condannato all’isolamento, a raccogliere la rabbia e il risentimento degli esclusi. Minaccia peraltro declinante sul piano federale dove il partito inutile dell’estrema destra, perde il suo elettorato borghese a vantaggio della Fdp, le cui posizioni in economia poggiano sulla priorità dell’interesse nazionale attraendo così anche le frange più rigoriste dell’elettorato cristiano-democratico.

Più che tradursi in definite opzioni politiche, l’umore del paese sembra limitarsi a dichiarare che «non si può andare avanti così». Uno stato d’animo che se non altro esclude la legittimità morale e la sensatezza politica di un governo guidato dallo sconfitto Armin Laschet e che, qualora vi si imbarcassero, trascinerebbe i Verdi nel più completo discredito.

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