Splendido articolo, e non è il primo, questo di Ruba Salih, docente di antropologia presso UNIBO. Se è consentito usare l’aggettivo “splendido”, parlando della persecuzione terribile che sta subendo il popolo palestinese, ormai da oltre tre quarti di secolo.
E profondamente femminile e femminista, per il punto di vista di genere con cui descrive e spiega la resistenza-resilienza dei Palestinesi al sionismo colonialista e imperialista di Israele.
E sottolineando il mantenimento, comunque e malgrado tutto, di una prospettiva futura su una terra cui sono indissolubilmente legati da una storia millenaria.
Mi ha colpito in particolare l’immagine di:
"A., madre nonna e attivista femminista di Gaza. Era trascorso un mese dall’inizio dei bombardamenti. A. racconta di come trascorre le sue giornate nel rifugio in cui lei, i figli e figlie e i nipoti hanno trovato riparo.
Dice del suo attaccamento spasmodico ai compiti che si è data: il procacciamento del cibo per i bambini – ormai isterici per la cattività, insonni per il suono senza sosta delle bombe e divorati dalla fame – il lavaggio dei vestiti con mezzi di fortuna e lo spazzare incessante della stanza-rifugio dove sono stipati.
E ancora un’altra immagine:
"Tra le tende del milione e mezzo di sfollati a Rafah una donna mostra una chiave: la tiene stretta in mano e con gli occhi pieni di lacrime invoca il diritto al ritorno.
Quella che ha in mano non è l’iconica chiave della casa nel villaggio di origine dei suoi nonni, che Israele distrusse nel 1948 con lo scopo di impedire il ritorno del profughi palestinesi. Non è la chiave che per decenni ha simboleggiato haq el ’awda, il diritto al ritorno, riconosciuto dalla risoluzione 194 delle Nazioni unite e violato, come altre decine di risoluzioni, da Israele.
La chiave è della sua casa nel campo profughi di al-Maghazi, da cui insieme alla famiglia è stata costretta ad andarsene per sfuggire ai bombardamenti israeliani e alla violenza genocidaria dell’esercito,…"
Ecco io credo che questa capacità, questa ferrea volontà di fare “casa” dovunque siano costretti a rifugiarsi, di mantenere vivo il simbolo della “chiave di casa” al di là e oltre qualsiasi muro, qualsiasi confine, qualsiasi deportazione, distruzione e lutto, già almeno da tre generazioni, sia l’ostacolo che da una parte Israele ha prodotto con la sua politica coloniale oppressiva, e dall’altra sta cercando di superare continuando a perpetrare la stessa politica.
E continuando ciecamente a fallire, anzi riuscendo perfino ad isolarsi progressivamente dal consesso internazionale che finora lo ha sostenuto e addirittura compromettendo la sua reputazione di unica democrazia regionale presso l’opinione pubblica mondiale.