il manifesto, a dispetto della società liquida
#ilmanifesto50 «Scrivo, ma se non va bene metteteci qualcos’altro», diceva Luigi Pintor (naturalmente non è mai successo che andasse in pagina qualcos’altro)
#ilmanifesto50 «Scrivo, ma se non va bene metteteci qualcos’altro», diceva Luigi Pintor (naturalmente non è mai successo che andasse in pagina qualcos’altro)
Zygmunt Bauman, il sociologo più amato dalla sinistra, ha scritto decine di libri sul mondo «liquido» in cui viviamo ma la persistenza di alcune fragili istituzioni, come il manifesto, potrebbe essere usata per smentirlo.
Un giornale improbabile, nato nel 1971 quando non esistevano i personal computer, né i telefonini, né la posta elettronica, né whatsapp: un giornale di carta che esiste ancora oggi, nel 2021, mezzo secolo dopo.
Nessuno ha mai fatto un buon giornale rinchiudendo i redattori nelle loro stanzette o nei deprimenti open space che le follie manageriali hanno imposto nelle redazioni una trentina d’anni fa: l’unico momento veramente collettivo di una redazione è la riunione del mattino, che al manifesto ha sempre incluso tutti, anche i neoassunti che, per anni, non osavano aprire bocca di fronte a Rossanda e Pintor.
Lo spirito di gruppo creato da quelle lunghe discussioni ha contribuito enormemente a irrobustire il giornale.
Alle origini, la riunione si teneva al quinto piano di via Tomacelli 146, in una stanza troppo piccola e invasa dal fumo delle gauloises di Valentino Parlato e dei sigari di vari altri tabagisti. Era il regno dei capiredattori Luca Trevisani e Michele Melillo, che venivano dall’Unità e sapevano come far funzionare la macchina.
Tutti partecipavano: i fondatori e i giovani, cioè un gruppetto di entusiasti la cui unica esperienza precedente erano i volantini davanti alle scuole o alle fabbriche, oltre ai tecnici, tipografi e fattorini alla pari con gli altri (anche gli stipendi erano rigorosamente uguali per tutti).
Al contrario di Scalfari a Repubblica, nelle nostre riunioni Pintor parlava poco, quasi solo se richiesto, ma naturalmente veniva ascoltato come se fosse il Messia per la lucidità delle sue analisi e la brevità dei suoi interventi, oltre che adorato per la sua umiltà; di solito lasciava la riunione dicendo: «Scrivo, ma se non va bene metteteci qualcos’altro» (naturalmente non è mai successo che andasse in pagina qualcos’altro).
Le riunioni erano un formidabile strumento di motivazione dei giovani e mal pagati redattori, o dei collaboratori che non erano pagati affatto ma si nutrivano della vicinanza con persone che avevano letto tutto, visto tutto, conosciuto tutti.
Rossanda era stata una delle poche persone ascoltate da Togliatti, Pintor aveva fatto la resistenza a Roma e diretto l’Unità, Valentino Parlato frequentava la Banca d’Italia con la stessa disinvoltura con cui scendeva a bere un whisky al bar Antille. Il compagno di Rossanda, Karol S. Karol, era un polacco che aveva perso un occhio combattendo contro i nazisti, conosceva Mao e Fidel Castro, mandava reportage dai quattro angoli del mondo.
In quale altro luogo i giovanissimi veneziani, torinesi o napoletani avrebbero potuto fare esperienze comparabili? Questo è il motivo per cui il manifesto degli anni Settanta-Ottanta ha prodotto decine di bravi giornalisti, alcuni dei quali sarebbero diventati molto noti una ventina d’anni dopo, per esempio Lucia Annunziata presidente della Rai.
La lunga riunione di redazione aveva, naturalmente, anche i suoi inconvenienti. Uno era il politicismo, la distanza siderale che contribuiva a creare con le realtà italiane fuori Roma: malgrado il culto delle lotte operaie e la celebrazione dei movimenti di liberazione, il giornale non riuscì mai a dare uno spazio adeguato ai militanti che facevano riferimento ad esso a Milano, a Napoli, a Marghera o a Taranto.
Un secondo problema era la rigidità che si creava in un quotidiano che doveva «chiudere presto» per arrivare in Sicilia, in Sardegna o in Friuli. Se il pomeriggio succedeva qualcosa di non previsto Michele Melillo, il caporedattore siciliano che aveva il controllo delle pagine, detestava cambiare il menabò, fosse pure per l’eruzione del vulcano Krakatoa.
Il manifesto è stato mille volte sull’orlo della chiusura, qualche anno fa tecnicamente fallito e in mano ai liquidatori, eppure è ancora qui. Ha dimostrato una straordinaria capacità di adattamento insieme a una profonda fedeltà alle sue tradizioni.
Oggi è fatto da pochissime persone, che compiono il miracolo quotidiano di mandarlo nelle edicole ma molte delle firme di oggi sono presenti sul giornale da mezzo secolo, o poco meno: è una navicella ben costruita che continua a navigare in un mondo non solo liquido ma tempestoso.
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