Il naufragio dell’Italia che il governo vorrebbe nascondere
La crisi di Malta Ignoranza dei fatti, spregio verso i diritti della persona, speculazione elettorale è contro questo apparato politico e ideologico che si sono battute le Ong Sea Watch e Sea Eye. La partecipazione dell’Italia all’operazione, dopo tante figuracce, è tuttora incerta. O destinata comunque a produrre turbolenze violente nell’esecutivo
La crisi di Malta Ignoranza dei fatti, spregio verso i diritti della persona, speculazione elettorale è contro questo apparato politico e ideologico che si sono battute le Ong Sea Watch e Sea Eye. La partecipazione dell’Italia all’operazione, dopo tante figuracce, è tuttora incerta. O destinata comunque a produrre turbolenze violente nell’esecutivo
«Non siamo pesci, non siamo pescatori, non possiamo rimanere in acqua»: così Fanny, fuggita da un conflitto armato in Congo e per 19 giorni a bordo della nave Sea Watch.
Intorno alle 12 di ieri il primo ministro maltese Joseph Muscat ha annunciato che l’Unione Europea ha trovato un accordo sulla drammatica situazione delle due imbarcazioni delle organizzazioni non governative Sea Watch e Sea Eye, che da settimane chiedevano invano alle autorità dei paesi europei un porto di sbarco sicuro. I 49 profughi salvati dalle Ong sono stati trasbordati quindi dalle due navi su mezzi militari maltesi e, portati finalmente a terra, saranno dislocati tra otto Paesi europei. L’intesa comprende anche i 249 migranti che Malta aveva soccorso a fine dicembre e la cui redistribuzione era l’irrinunciabile condizione per acconsentire allo sbarco. Fin qui, i fatti.
MA QUAL È STATO il ruolo dell’Italia in questa malinconica e crudele vicenda?
Nei circa venti giorni di calvario marittimo dei 49 naufraghi le istituzioni italiane, nelle persone di coloro che hanno responsabilità politica sulle decisioni relative agli sbarchi, hanno ben chiarito le rispettive posizioni.
«TRA DONNE E BAMBINI ci sono dieci persone. L’Ue nasconde la testa sotto la sabbia. Di fronte a questo disimpegno ignobile, siamo pronti ad accoglierli». A dirlo, ma solo dopo il quattordicesimo giorno di mare dei profughi, il vicepresidente del Consiglio Luigi Di Maio. Ripreso qualche giorno dopo da Danilo Toninelli, ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti: «Donne e bambini, mi va benissimo, anche 15, poi diremo a tutta l’Europa che dovrebbe vergognarsi».
La bizzarra lezione pedagogico-morale che Di Maio e Toninelli intendono impartire all’Europa si regge tutta sul presupposto di un adamantino curriculum etico dell’Italia e di un impegno straordinario cui il nostro paese, bontà sua, si piegherebbe in ragione della irresistibile commozione che minori e persone di sesso femminile inducono anche nel cuore più arido. La separazione coatta dei nuclei familiari, già duramente provati da tanti giorni di navigazione veniva trascurata quasi fosse un dettaglio insignificante, prima che un soprassalto di buon senso inducesse alla ragione il presidente del Consiglio, che parlava di una disponibilità «verso le famiglie».
E così è stato bellamente ignorato che l’unico soggetto titolato e responsabile, l’Ong Sea Watch, aveva dichiarato sin dal primo momento l’indisponibilità ad accettare che una madre con figlio venisse spedita, chessò, a Vercelli e il padre a Valencia. Dopo questo lungo travaglio, si è infine giunti alla soluzione in via di ulteriore definizione nel corso della giornata passata. Per quanto riguarda in particolare le vicende del nostro cortile di casa, nella serata di ieri si sarebbe tenuto un vertice nel quale il ministro dell’Interno intendeva ribadire una posizione di «assoluta contrarietà a nuovi arrivi in Italia». Dunque la partecipazione dell’Italia all’operazione, nella sua modestissima funzione dopo tante figuracce, è tuttora incerta. O comunque destinata a produrre, all’interno della maggioranza di governo, turbolenze violente come mai in passato.
D’ALTRA PARTE, è naufragata – è proprio il caso di dire – la tesi del ministro Toninelli, che ha accusato le due Ong di non aver «restituito» i naufraghi a coloro dai quali fuggivano: le milizie libiche che gestiscono i centri di detenzione. Interprete ineffabile dell’antico adagio per cui «Si parte per tornare», il ministro Toninelli ha sostenuto una ricostruzione dei due diversi soccorsi di Sea Watch e Sea Eye che si discosta notevolmente dalle testimonianze rilasciate dalle due Ong e dai diari di bordo delle rispettive imbarcazioni che negano di avere ricevuto qualunque disposizione dalla cosiddetta guardia costiera libica.
Vera o falsa che sia l’una o l’altra versione, la sostanza dell’invito del nostro ministro era che profughi e migranti tornassero in quei centri di detenzione da cui oltre il cinquanta per centro di loro era fuggito per tentare la traversata del Mediterraneo. Centri che il più recente rapporto dell’Onu denuncia come luoghi di «inimmaginabili orrori»: «reclusione arbitraria, percosse, bruciature con ferri caldi, torture con cavi elettrici, molestie e violenze sessuali».
È stato questo – ignoranza dei fatti, spregio verso i diritti fondamentali della persona e speculazione elettorale – l’apparato culturale e politico-ideologico contro cui si sono dovute battere, con grande saggezza e raggiungendo, tra mille sofferenze e frustrazioni, l’obiettivo essenziale, le due organizzazioni umanitarie Sea Watch e Sea Eye.
INFINE, e per buttarla volutamente in caciara, va detto che forse la vicenda risulta così indigesta per la Lega in quanto agisce nel suo contorto inconscio collettivo: quei 49 evocano sinistramente, per la Lega, una cifra (49, ma di milioni) che porta lo stigma dell’imbarazzo e della vergogna.
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