Il ritorno di Lev Jascin, il ragno nero
La storia Un portiere da record, l’incubo degli attaccanti. Parava tutto, rigori compresi. Putin voleva fare un film di propaganda sulla leggenda del calcio sovietico, ma la vedova ha detto «assolutamente no»
La storia Un portiere da record, l’incubo degli attaccanti. Parava tutto, rigori compresi. Putin voleva fare un film di propaganda sulla leggenda del calcio sovietico, ma la vedova ha detto «assolutamente no»
Il mito del Ragno Nero non è svanito. Ancora vivo nella scatola nera del calcio. Cinquanta anni fa il sovietico Lev Jascin, forse il più forte portiere nella storia del gioco, vinceva il Pallone d’Oro. Unico sinora tra gli estremi difensori. E nell’era di fuoriclasse come Alfredo Di Stefano, Gianni Rivera, Eusebio. Con lui, ecco il concept moderno del portiere che domina l’area di rigore in uscita e coordina i movimenti dei difensori. Jascin, icona dello sport dell’Urss che produceva una serie infinita di aneddoti. Tra cui, portiere di «fabbrica» perché pare che i suoi compagni gli lanciassero dei bulloni, per verificarne i quasi irreali riflessi. Parava tutto, compreso i calci di rigore (circa 150), rendendo quasi inutili gli assalti degli avversari (207 volte imbattuto su 326 gare in carriera).
Un muro per tredici anni della Nazionale sovietica. Un corpo da cestista che nelle sue mani giganti compattava pallone e politica. La sua esplosione a grandi livelli (fino a 25 anni era un giocatore di hockey) avveniva nell’era post stalinista. Con i grandi campioni sovietici che erano utilizzati come cartina di tornasole della rinnovata potenza politica e militare sovietica, che voleva (in teoria) mettere da parte le rudezze del regime.
Propaganda nazionalista, messaggi da spedire direttamente nelle stanze dei bottoni dei Paesi occidentali. Per questo motivo, la vedova del grande portiere sovietico, Valentina, si è opposta all’idea del presidente della Federazione Russa, Vladimir Putin, di realizzare un film sulla vita da leggenda del Ragno Nero, soprannome dovuto al colore della sua tenuta da gioco. «Quando sarò morta, allora potranno fare un film o qualunque altra cosa venga loro in mente», ha detto la vedova Jascin alla rete tv russa Dozhd.
L’iniziativa di Putin si colloca sulla scia del grande successo di pubblico riscosso da Leggenda n. 17. Il film, del regista Nikolaj Lebedev, racconta la vita e la carriera di Valeri Kharlamov, mito dell’hockey sovietico tra il 1969 al 1981. Leggenda n. 17 ha incassato oltre 35 milioni di rubli (1,1 milioni di dollari) in un solo giorno. Un record assoluto nell’ambito delle produzioni cinematografiche russe degli ultimi anni. Su Jascin al cinema con i pop corn, niet, nulla da fare. Con enorme delusione per l’ex portiere della Nazionale russa Vyacheslav Malafeev, che si era proposto per interpretare il ruolo del portierone dell’Urss.
Il rischio di cadere nella propaganda era concreto. Jascin era un figlio della Russia povera, sopraffatta dalla Seconda Guerra Mondiale. Le sue qualità vennero fuori con la Dinamo Mosca, squadra del ministero dell’Interno sovietico, con cui vinse cinque campionati e tre Coppe di Russia. Ma il portiere diventava una stella di prima grandezza del calcio alle Olimpiadi di Melbourne 1956. Proiezione a cinque cerchi della nuova fase di apertura politica (e economica) sovietica, con Nikita Kruscev segretario generale del Pcus. E la denuncia dei crimini di Stalin, contro cui, al XX congresso del Pcus, fu prodotto un rapporto segreto sulla sua attività politica e sugli spietati metodi di governo. L’Urss, sotto Kruscev, investiva forte sullo sport per evidenziare la superiorità del regime. Agli atleti veniva proposto un tenore di vita decisamente più elevato rispetto ai cittadini sovietici. Con risultati entusiasmanti. Nel medagliere, l’Urss centrava 98 medaglie, ventiquattro più degli statunitensi. Un successo che non riusciva ovviamente a coprire le violenze che si stavano verificando in Ungheria.
A pochi giorni dalla cerimonia inaugurale dei primi Giochi australi. Ungheria e Urss si sfidarono nel torneo di pallanuoto. La partita nota come Bagno di sangue di Melbourne con un pallanotista ungherese che usciva dalla piscina con il sopracciglio destro sanguinante, dopo un colpo – volontario – ricevuto da un sovietico. Il clima era rovente. E il Ragno Nero, con la sua forza, la sua potenza, rappresentava sul rettangolo di gioco il potere sovietico. Quattro anni dopo, nel 1960, Jascin era ancora protagonista indiscusso del successo dell’Urss alla fase finale degli Europei, in Francia. Confermandosi custode sportivo del nuovo corso dell’Urss. La faccia sportiva della destalinizzazione. Dopo Melbourne 1956, gli Europei francesi erano l’occasione giusta per confermare la supremazia sovietica anche nel calcio, il gioco nato nei Paesi occidentali, non solo nelle discipline olimpiche, in cui c’erano tradizione e successi. Un torneo, gli Europei, reso possibile dal disgelo tra i Paesi del blocco occidentale e quelli socialisti.
La Guerra Fredda tornava però protagonista nei quarti di finale: Urss contro Spagna, del generale Franco. Jascin contro Di Stefano: due scuole di pensiero, due modi diversi di fare calcio. Ma nessun rapporto diplomatico tra le due nazioni. La Spagna si rifiutò di giocare a Mosca per volere del suo generale. Sovietici in semifinale, contro la Cecoslovacchia, superata grazie alle prodezze di Jascin. Poi, la finale. Battuta la Jugoslavia, torneo ai sovietici, per la gioia di Breznev in tribuna, Jascin subisce appena due reti in tutto il torneo. 1963, il suo anno d’oro con il Pallone d’Oro, miglior portiere del campionato sovietico, sei reti subite in ventisette partite. Dodici mesi prima, aveva deciso di ritirarsi, dopo l’eliminazione dell’Urss dai Mondiali in Cile per mano dei padroni di casa. Nel 1964 Breznev sale al potere, ritornano i conflitti tra Oriente e Occidente, la primavera di Praga. Ma Jascin continuava a collezionare premi e ammiratori, sino alla fine della sua carriera, con una partita d’addio allo stadio Lenin di Mosca nel 1971. 100 mila spettatori, in campo i migliori attaccanti del mondo, tra i pali, il loro incubo.
Scheda: Un «solitario» pallone d’oro nel 1963
Un portiere, come il sovietico Lev Jascin nel 1963, che solleva il Pallone d’Oro resta uno dei primati tuttora imbattuti nel calcio mondiale. Nonostante una lunga lista di candidati straordinari tra i numeri uno d’ogni epoca: da Dino Zoff all’inglese Gordon Banks, dall’erede di Jascin, Rinat Dasaev, fuoriclasse dell’Urss del colonnello Lobanovski a fine anni ’80 (finalista agli Europei di Germania 1988, sconfitta dall’Olanda), sino a Iker Casillas, a Gigi Buffon. Ci è andato vicino invece il tedesco Oliver Kahn, terzo nella classifica finale 2002 (Germania finalista contro il Brasile al Mondiale in Giappone e Corea del Sud), dietro a Ronaldo e Roberto Carlos.
In pratica, un embargo verso gli estremi difensori. Che difficilmente sarà revocato nei prossimi anni. Zero chance di successo, anche se hanno vinto, da protagonisti assoluti, ogni competizione, come Casillas, campione d’Europa 2012 con la Spagna e della Liga spagnola con il Real Madrid. E anche Gigi Buffon avrebbe potuto vincere il premio. Nel 2006, con l’Italia campione del mondo a Berlino, gli è stato preferito Fabio Cannavaro.
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