Editoriale

Il voto di scambio e i demagoghi dell’anti-mafia

Il voto di scambio e i demagoghi dell’anti-mafia

Giustizia Aggiungere «la disponibilità a soddisfare gli interessi o le esigenze dell’associazione mafiosa» nel nuovo reato sul voto di scambio è sbagliato. Una norma così generica aggraverà il contenzioso con la politica e non aiuterà la magistratura a sconfiggere Cosa nostra individuando reati specifici

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 1 aprile 2014

Il dibattito parlamentare sulla la riforma dell’articolo 416 ter del codice penale, reato di voto di scambio politico-mafioso, rischierebbe di apparire una pura e semplice disputa dottrinale tra giuristi se non avesse implicazioni abbastanza gravi per lo stato di diritto in relazione all’azione di contrasto alle mafie e, più in generale, ai rapporti tra magistratura e potere politico.
Il merito in sé è abbastanza semplice da spiegare.

La norma attualmente in vigore prevede che «la pena stabilita dal primo comma dell’art. 416 bis si applica anche a chi ottiene la promessa di voti prevista dal terzo comma del medesimo articolo 416 bis in cambio della erogazione di denaro», mentre la proposta modifica, dopo aver eliminato l’avverbio «consapevolmente», aggiunge al denaro anche «altra utilità» e, ancora, «la disponibilità a soddisfare gli interessi o le esigenze dell’associazione mafiosa». Da anni si è ritenuta inefficace la norma circoscritta alla sola erogazione di denaro, dato che raramente i mafiosi ricevono denaro, mentre si è chiesto sempre che si aggiungesse «o altra utilità» per centrare l’essenza del voto di scambio che, oltre all’improbabile denaro, ha ben altre e sostanziose contropartite.

Improvvidamente, sull’onda di una mai sopita ansia repressiva, è stata aggiunta questa fantomatica «disponibilità» che, a detta di quasi tutti i magistrati e del buon senso giuridico, è di difficile interpretazione e potrebbe portare ad allargare la sfera della punibilità a comportamenti imprevedibili da parte di eventuali imputati che invece dovrebbero sapere quali sono i fatti materiali punibili. La necessità dunque, per il diritto di un moderno stato democratico, di una tipizzazione che adoperi termini non vaghi e di mutevole accezione a seconda del pm o giudice interprete di turno: la memoria va, come esempio insuperabile, alla famigerata offesa del comune senso del pudore nel reato di atti osceni.
Non a caso per le stesse ragioni da anni si invoca anche la tipizzazione del «concorso esterno» che, benché abbastanza circoscritto dalla giurisprudenza della cassazione, non indica quali sono i comportamenti che integrano detto reato.

Magistratura democratica, ma anche tutta la magistratura associata, abbandonata la corazza degli scontri ideologici con la politica, proprio a difesa della autonomia della giurisdizione, guardando al suo interno, e preoccupandosene, invoca sul punto la soppressione di una locuzione così vaga e ambigua che potrebbe portare ad interpretazioni abnormi, riaprendo a dismisura il campo degli scontri con la politica.

Che cos’è e in cosa si estrinseca, infatti, una «disponibilità» in assenza di un improbabile prova documentale o testimoniale: una stretta di mano, un abbraccio, un mezzo sorriso? E in quale soddisfazione di interesse o esigenza si concretizzerà poi l’intesa? Non rischia di confondersi e sovrapporsi al concorso esterno? L’«altra utilità», già di per sé abbastanza ampia, è più che sufficiente a chiudere il cerchio e aggiungere la «disponibilità» serve solo ad accrescere dubbi interpretativi con processi basati più su una predisposizione all’aiuto elettorale, difficile da provare, che su fatti materiali.

L’ansia repressiva dal volto feroce, espressa dagli stessi settori che oggi vogliono inserire la «disponibilità», qualche anno fa portò ad accrescere le pene per alcuni reati di mafia tanto da far scattare la competenza della corte d’assise, facendo venir meno la competenza del tribunale e mettendo in pericolo molti processi in corso di svolgimento, sì che fu necessario un decreto legge per rimediare al disastro: l’esperienza insegna che certi furori antimafia fanno danno senza far avanzare di un passo la lotta alla mafia.

L’esigenza di procedere con efficacia probatoria servendosi di reati specifici era stata ben delineata da Giovanni Falcone nel suo libro scritto con Marcelle Padovani (Cose di cosa nostra, pag. 152; Rizzoli). Secondo Falcone, pur dovendosi riconoscere la grandissima utilità della legge Rognoni-La Torre e del 416 bis per porre rimedio alla mancanza di prove dovuta alla limitata collaborazione dei cittadini e alla difficoltà di ottenere testimonianze, detta legge «non sembra che abbia apportato contributi decisivi nella lotta alla mafia. Anzi, vi è il pericolo che si privilegino discutibili strategie intese a valorizzare ai fini di una condanna elementi sufficienti solo per aprire un’inchiesta»: da questa premessa concludeva che bisognasse orientarsi «verso la ricerca della prova dei reati specifici».
Speriamo che prevalga questo buon senso e che non si perpetui la stagione del deleterio contrasto tra politica e giurisdizione che tanto danno ha fatto e sta facendo allo stato di diritto.

Del resto, il «protagonismo giudiziario» ha lasciato un segno profondo, portando a una crescente delegittimazione della magistratura e, peggio ancora, a un disastro elettorale della sinistra radicale affidatasi incautamente a un giustizialismo rivelatosi palesemente perdente. Cerchiamo di non insistere a farci del male.

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