Editoriale

Khan Younis dice che le vite palestinesi non contano

La fossa comune trovata al Nasser Hospital foto Ap/Omar NaamanLa fossa comune trovata al Nasser Hospital – Ap/Omar Naaman

Il fronte mediatico Le fosse comuni sedimentano l’orrore nell’immaginario globale: è l’abuso definitivo. Quella di Bucha resterà nell’immaginario europeo grazie ai leader politici che vi hanno fatto visita. Quelle di Gaza no. La sotto-rappresentazione dei crimini di guerra di Israele è una delle unità di misura di questa offensiva, funzionale all’adesione a un modello di cittadinanza diseguale

Pubblicato 7 mesi faEdizione del 23 aprile 2024

Domenica un bombardamento israeliano su Rafah ha ucciso sedici bambini e sei donne. Nelle stesse ore veniva alla luce una nuova fossa comune, all’ospedale Nasser di Khan Younis, dopo il lungo assedio israeliano terminato il 7 aprile scorso: 283 corpi dentro buste di plastica, molti legati, tanti uccisi da distanza ravvicinata, probabilmente giustiziati. Donne, bambini, anziani.

Quando l’offensiva finirà, a Gaza si camminerà sui cadaveri.

Non è la prima volta. Era già successo all’ospedale Shifa. Le fosse comuni gelano il sangue, sedimentano l’orrore nell’immaginario globale: è l’abuso definitivo. Non è solo la morte inflitta, è la sua umiliazione, l’oltraggio di un oblio senza dignità. La fossa comune di Bucha, in Ucraina, resterà nell’immaginario europeo grazie all’impegno dei leader politici che vi hanno fatto visita. Quelle di Khan Younis e dello Shifa no. Sui giornali non si trovano, se si trovano sono messe in dubbio: erano combattenti, è un video posticcio, forse è stata Hamas.

La sottorappresentazione dei crimini di guerra compiuti da Israele – se non il loro occultamento – è una delle unità di misura di questa offensiva. Ha radici storiche, qui e altrove. La questione israelo-palestinese è fin dalle sue origini un confronto per la terra. Ma è stata, ed è tuttora, anche un confronto tra narrazioni. La narrazione di sé è allo stesso tempo fonte di identità e voce di quella identità, tanto più in un contesto coloniale in cui la negazione dell’altro, del subordinato, è elemento strutturale della spoliazione e dell’assoggettamento.

AGLI INIZI del ’900, quando il movimento sionista è arrivato in terra di Palestina, il popolo palestinese aveva già un sentimento nazionale e nazionalista fortemente radicato e un’identità collettiva (politica, culturale, sociale) complessa. Con la prolungata negazione dell’autodeterminazione, la necessità di un riconoscimento esterno è passata per il ricorso a un linguaggio universale e condiviso, il vocabolario del diritto internazionale.

Colonialismo di insediamento, apartheid e oggi genocidio sono la cassetta degli attrezzi nel mondo accademico per descrivere la natura dello stato israeliano. Nell’indifferenza. Fino a oggi: quel lessico è diventato tanto globale da risuonare nell’aula della Corte internazionale di Giustizia.

Non risuona nel sistema mediatico occidentale dove la violenza semantica serve a giustificare quella concreta, esercitata nei Territori palestinesi occupati. In Italia è una dinamica palese: l’adozione acritica della narrazione israeliana, oltre a essere dettata da una vicinanza alle rivendicazioni di Tel Aviv, è funzionale all’adesione a un modello di cittadinanza diseguale, di securitarismo razzializzato e di presunta superiorità morale.

Una buona parte della stampa italiana replica quel modello per attitudine razzista e neo-coloniale. Le vite palestinesi non contano, come contano meno quelle dei migranti o delle seconde generazioni.

Gli effetti sono visibili: il ricorso al linguaggio israeliano anche quando in palese contraddizione con i dettami del diritto internazionale, l’assenza di chi agisce la violenza (con i palestinesi morti di guerra, morti di esodo), la messa in discussione delle testimonianze palestinesi, la rimozione del contesto storico.

MA SOPRATTUTTO, ed è questo a generare sconcerto e dolore, l’occultamento dei crimini di guerra israeliani. Stragi di bambini, raid mirati su scuole, chiese e moschee, vilipendio degli ospedali, attacchi ai corridoi sicuri al passaggio degli sfollati, chiusura dei valichi di frontiera per provocare carestia, intelligenza artificiale per anestetizzare il massacro, niente di tutto ciò è raccontato nella sua reale misura da media che in altre occasioni hanno giustamente dato voce allo sdegno. Non lo generano le immagini di prigionieri spogliati, legati, bendati, concentrati in stadi o piazze.

Una simile sottorappresentazione non ricade solo sui palestinesi. Ricade su di noi: è il prodromo alla criminalizzazione di chi dissente, accusato di antisemitismo nel “migliore” dei casi, manganellato nel peggiore.

Fa riflettere che lo stesso sistema mediatico che evoca gli anni di piombo e le stelle a cinque punte per narrare il movimento degli studenti, di fronte a crimini di guerra in diretta tv e alla trasformazione di Gaza in un luogo inadatto alla vita stia ancora balbettando sull’esistenza o meno di un «genocidio plausibile».

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