Editoriale

La barzelletta dell’embargo di armi

La barzelletta dell’embargo di armiMilizie filo Serraj a difesa di Tripoli – Ap

Dopo il consiglio dei ministri degli esteri dell’Ue sulla Libia, Luigi Di Maio si è detto contento: «Abbiamo trovato l’accordo per una missione che blocchi il flusso di armi; l’Ue […]

Pubblicato quasi 5 anni faEdizione del 18 febbraio 2020

Dopo il consiglio dei ministri degli esteri dell’Ue sulla Libia, Luigi Di Maio si è detto contento: «Abbiamo trovato l’accordo per una missione che blocchi il flusso di armi; l’Ue si impegna con una missione navale, aerea e con disponibilità anche terrestre, per bloccare l’ingresso delle armi». Un annuncio sul quale pesano però le profonde divisioni europee sull’accoglienza dei migranti – da parte di Austria e Ungheria e non solo -, al punto che Di Maio si è affrettato ad aggiungere: «Se l’embargo stimolerà le partenze lo bloccheremo».

Come a dire che se il blocco delle armi non sia mai funzionasse e ne «approfittassero» i profughi disperati, allora meglio che la guerra continui. Sull’accordo pesa inoltre la forte incredulità delle Nazioni unite che, con Stephanie Williams, vice dell’inviato speciale Onu Ghassan Salamè, ha dichiarato che «l’embargo sulle armi in Libia è una barzelletta», segnalando 150 violazioni della tregua. Perché al colto e al profano una cosa è chiara: se si vuole davvero avviare un embargo di armi alla Libia, in guerra intestina tra fazioni eredi del disastro della guerra Nato del 2011 prima e poi del conflitto per procura – vista la quantità di interessi e di Stati coinvolti – tra il governo «riconosciuto» di al Serraj a Tripoli e quello della Cirenaica del generale Haftar, quel che si deve concretamente fare è bloccare l’export di armi verso il Paese in guerra.

E avviare una politica di decrescita del mercato mondiale delle armi, visto che armamenti e guerre si espandono come un’epidemia. E per il quale, il bilancio dell’export italiano è di circa 5 miliardi di euro l’anno, con circa la metà destinata ai Paesi del Nordafrica come la Libia e il Medio Oriente. Allora, come si fa ad embargare le armi se il Paese proponente, vale a dire l’Italia, è tra i principali fornitori dei fronti che sul terreno libico si contrappongono? Il rischio della barzelletta è davvero fortissimo. Perché l’alleato Turchia, baluardo Nato con Trump al suo fianco, traffica in armi atlantiche con noi e con l’area mediorientale, e allo stesso tempo non lesiniamo certo commesse militari all’Egitto anzi, grazie alla nostra ambasciata diventata un fortilizio d’affari, implementiamo nuove forniture (in navi ed aerei) in questi giorni per 9 miliardi di dollari.

Ora il ministro Di Maio dichiara finita la missione Sophia» e parla di una nuova missione «navale, aerea e con disponibilità anche terrestre». Ma quali forze aeree e con quale legittimità bloccheranno cargo volanti con armi atlantiche alle forze turche dislocate a Misurata, oppure armi russe alle forze egiziane che fanno arrivare armamenti – con i fondi delle monarchie del Golfo invise ai Fratelli musulmani – al governo in Cirenaica, sul fronte di Misurata ma dall’altra parte «nemica»? E ancora, quali «scarponi a terra» controlleranno i confini della Tunisia, dell’Egitto, dell’immensa area del Sahel, da Mali, Niger, Ciad (per una frontiera di più di 5mila chilometri? E per finire, come verrà punito il Paese che violerà l’embargo?

Il vero embargo di armi dovrebbe partire dallo stop ai traffici «legali» dei principali Paesi impegnati a soffiare sul fuoco della guerra in Libia. Paesi come gli Stati uniti che con Trump sono corsi a portare in dote alla «democratica» monarchia dei Saud – schierata con Haftar – un arsenale di armamenti per il valore di 100 miliardi di dollari. Non è chiaro dunque in che modo questo «accordo» di facciata possa mai arrivare al Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite, evitare una litania di veti contrapposti e diventare così una reale, quanto necessaria, missione di blocco della guerra.

Un elemento è subito evidente. Che l’Italia del nuovo governo giallo-rosa, persegua «a sua insaputa» la stessa politica estera strumentale che, dallo scranno di ministro degli interni, dirigeva Matteo Salvini, soprattutto prono ai ricatti degli Stati uniti e delle loro strategie per il Medio Oriente. Dove scopriamo che l’Italia non fa parte del gruppo che in Europa in queste ore si sta costituendo per rilanciare per la Palestina la legittimità internazionale delle Risoluzioni Onu che parlano di «due Stati» e per dire no «all’accordo del secolo» con il quale Trump consegna definitivamente i Territori occupati palestinesi nelle mani dello Stato d’Israele, delle sue colonie e del suo Muro, senza possibilità d’appello se non l’accettazione di bantustan e apartheid.

Un’Italia che s’affida più all’«eccellenza» della produzione e import-export di armi che non ai diritti umani, come dimostra il silenzio governativo e non solo sull’arrivo «normale» della nave Bahri Yanbu nel porto di Genova con il suo carico di morte destinato allo schieramento alleato saudita nella guerra in Yemen, le cui vittime sono soprattutto miglia di civili. Allora, che senso ha riempire allegramente di armi un’altra insanguinata terra mediorientale e annunciare l’embargo a chiacchiere per la guerra in Libia che ci preoccupa solo perché temiamo l’arrivo dei profughi disperati, ormai bersaglio dei combattimenti, e per le sue decisive fonti energetiche ? «La più grande struttura dell’ingiustizia è la stessa industria della guerra»: possibile che l’affermazione sia del papa e non il tema centrale delle piazze, delle convention della sinistra e dei sindacati?

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