La distruzione alla periferia di Kiev il 27 marzo 2022, foto Ap
Editoriale

La guerra non paga dividendi

La distruzione alla periferia di Kiev il 27 marzo 2022 – Ap

Memoria attuale Riproponiamo questo articolo da "il manifesto", Dossier Pace, ottobre 1983, da allora mai più ripreso

Pubblicato quasi 2 anni faEdizione del 6 dicembre 2022

Malgrado il grande rispetto dovuto allo sforzo intellettuale dei pensatori che hanno visto nella guerra lo sbocco ineluttabile delle contraddizioni del capitalismo e l’evento distruttivo in grado di dare nuovo alimento alla domanda e rinnovato stimolo all’accumulazione, vi sono molti motivi per ritenere che le trasformazioni intervenute nella sfera dei fatti e in quella delle idee non consentano di considerare ancora valido questo indirizzo di pensiero.

Non deve tacersi, tuttavia, che, mentre i cultori delle scienze maggiormente in grado di pronunciarsi con competenza sulle probabili conseguenze dell’olocausto nucleare non hanno esitato a denunciarne gli effetti apocalittici, gli economisti sono ancora, in larga parte, legati a una ricerca dell’efficienza anche rispetto alle spese per il riarmo, assumendo come un dato estraneo alla loro competenza la decisione politica delle spese stesse.

Non è stato sempre così.

Il maggiore economista italiano dell’Ottocento, Francesco Ferrara, ebbe a scrivere, una volta raggiunta l’unità del nostro Paese e delineatesi le sue velleità militariste, «una larghissima riduzione dell’esercito attivo, un gagliardo rallentamento della troppo rapida formazione della marina italiana sono condizione inesorabile a quello stato di equilibrio senza del quale è vana lusinga che un’era di prosperità cominci davvero per l’Italia» (discorso parlamentare del 1867). E si trattava di un intransigente liberale.

Ora, malgrado il tempo trascorso e le profonde modificazioni economiche verificatesi nel nostro Paese, quando la realtà sociale si esamini senza retorica, è ben dubbio che la descrizione stupenda, da parte di Giovanni Verga, dello stato d’animo dei Malavoglia per il loro Luca, lontano in mare ove morirà a Lissa, non sia oggi riferibile all’affanno di famiglie cui appartengano giovani reclute inviate nel Libano, per ambizioni di presenza politica del tutto velleitarie.

In definitiva, si tratta di stabilire se il nostro Paese «ritardatario» debba proporsi e perseguire ideali amministrativi di bonifica ambientale, di eliminazione del persistente sfasciume geologico, di elevazione del grado di qualificazione professionale dei giovani in cerca di lavoro, di ricerca impegnata di nuove possibilità di impiego; o se intenda essere pedina di altrui imperialismi, svolgendo inoltre questo ruolo di sovranità limitata con la ben nota «cupidigia del servilismo» di cui già altra volta gli è stato mosso addebito.

La ricerca della prosperità nella fortissima riduzione delle armi, e non nella loro moltiplicazione, non vale soltanto per il nostro Paese, ma per il mondo in generale.

I 35 milioni di disoccupati nell’OCSE e gli 11 milioni della Cee richiedono non demenziali appelli all’affetto magico del mercato, ma uno sforzo organizzativo poderoso, mirante non all’opulenza o al benessere, ma alla faticosa rimessa in moto di un meccanismo inceppato dai troppi avventurieri della finanza, dell’accaparramento dell’altrui risparmio, della speculazione valutaria destabilizzante.

Gli antichi mercanti di cannoni si sono istituzionalizzati e multinazionalizzati.

Marce, canti, slogans, pur con un loro significato di testimonianza, costituirebbero uno sperpero di energie, se non si comprendesse che la neutralizzazione delle trame dei falchi non può limitarsi a una constatazione vocale, ma richiede un incessante impegno di lucida intelligenza e di appassionata progettualità.

* Riproponiamo questo articolo da “il manifesto”, Dossier Pace, ottobre 1983, da allora mai più ripreso. Vi si fa riferimento alla prima missione militare italiana all’estero del dopoguerra, in Libano nel 1982-1983, che fu di interposizione dopo l’invasione israeliana del Paese, e che però arrivò dopo la strage di civili palestinesi di Sabra e Shatila.

Federico Caffè, 1914 – 1987, è stato uno dei più importanti economisti italiani del secondo dopoguerra. Professore di Politica economica presso la Sapienza di Roma, è stato il maestro di una intera generazione di economisti, tra i quali Mario Draghi e Ignazio Visco. Uscì di scena nel 1987, evento che ancora oggi resta un mistero. Fu un assiduo collaboratore del manifesto, grazie al legame profondo con Valentino Parlato. Quasi tutti i suoi articoli sul quotidiano sono raccolti in “Scritti quotidiani”, a cura di Roberta Carlini, manifestolibri.

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