Le montagne russe del medagliere
Spesso lo sport è una password d’accesso per storie nascoste e dolorose. Come quella di Mehjabin Hakimi, pallavolista afgana, che aveva osato giocare senza l’hijab, morta come Zaki Anvari, calciatrice dell’Under 21 della nazionale afghana, staccatasi di colpo da un aereo militare americano, aggrappata a un tentativo di fuga da Kabul da poco tornata nelle mani dei talebani, che nelle successive settimane avrebbero messo al bando allo sport femminile. L’altra faccia dello sport femminile nel 2021.
Vicende tragiche o amare, come quella della tennista cinese Peng Shuai: la sua denuncia di aggressione sessuale subita per anni dal vicepremier cinese le è costata cara. La sua scomparsa per settimane dalla scena pubblica ha suscitato clamore – alla sua richiesta di rispetto della privacy non ha creduto nessuno – tanto da costringere il Comitato olimpico internazionale a boicottare i tornei cinesi dal calendario internazionale.
E nell’assegnazione delle copertine dell’anno un posto va certamente a Simone Biles, forse la ginnasta americana più grande di sempre, quattro medaglie d’oro olimpiche a Rio de Janeiro 2016 e il clamoroso ritiro da Tokyo 2020. Si è chiamata fuori dopo pochi esercizi in pedana, eccessivo il peso della pressione, del successo da mantenere costante. Una carriera fatta di tensioni e sollecitazioni continue che le hanno provocato disturbi d’ansia, improvvisi blocchi mentali che ne hanno causato perdite d’orientamento durante l’esecuzione di alcuni acrobazie. Niente ori, niente podi, anni di fatica, allenamento e rinunce: davanti a tutto Simone ha deciso coraggiosamente di mettere la tutela della sua salute mentale. La rivista americana Time le ha riservato il titolo di sportiva dell’anno. Mai nessuno aveva denunciato con questa forza, anche mediatica, la questione del benessere mentale degli atleti.
Che esiste, eccome se esiste. Da Michael Phelps, otto ori nel nuoto a Pechino 2008 a un passo dal suicidio, a Kevin Love, cestista dei Cleveland Cavaliers (Nba) che pure ha avuto il merito di parlare pubblicamente della depressione e del benessere mentale degli atleti. Nel calcio è toccato ad Alvaro Morata della Juventus, allo spagnolo Fernando Torres, all’ex tecnico del Milan e della nazionale italiana Arrigo Sacchi, che per lo stress eccessivo lasciò incarichi al Real Madrid e al Parma, all’atalantino Josip Ilicic.
E un mese prima di Simone Biles è toccato alla giapponese Naomi Osaka, una delle tenniste più forti del circuito, ultima tedofora a Tokyo 2020: si era ritirata dal Roland Garros, non riusciva a sostenere le conferenze stampa, le domande, ammettendo di aver sofferto di depressione dal 2018.
Tornando alle Olimpiadi, rinviate di 12 mesi a causa della pandemia, si è scritta l’ultima, straordinaria, pagina della storia di Federica Pellegrini, a 33 anni alla quinta edizione dei Giochi arrivando in finale nei 200 metri, la gara che l’ha eletta regina per oltre 15 anni. Federica, come Simone Biles, anzi prima di Simone Biles, con i suoi attacchi di panico in vasca iniziati dopo le Olimpiadi di Pechino 2008, aveva denunciato pubblicamente il peso della pressione, quell’ansia da prestazione sugli atleti perennemente sottovalutata dallo sport che produce e consuma, che lei ha imparato a gestire, “anche se non passano mai del tutto, impari a conviverci e a combatterli, ma ci sono sempre”. Ha chiuso con il nuoto vincendo i campionati italiani nei 200 metri a Riccione, con il tuffo in piscina assieme al presidente del Coni, Giovanni Malagò. Mai nessuno come lei, ma in casa Italia non c’è stata ovviamente solo la campionessa veneta.
A Tokyo 2020 c’è stata la prima medaglia dal canottaggio femminile, vinta da Valentina Rodini e Federica Cesarini, nel doppio pesi leggeri. In Giappone invece Paola Egonu, una delle migliori pallavoliste al mondo, scelta come portabandiera dal Comitato olimpico internazionale, ha fallito il bersaglio: la nazionale italiana non è neppure arrivata vicina alla zona medaglie. Dopo qualche settimana però ha trascinato l’Italvolley al successo finale agli Europei.
Invece alle Olimpiadi nipponiche la napoletana Irma Testa ha centrato una medaglia, bronzo nel pugilato, la prima nella letteratura olimpica italiana. Ma il colpo l’ha assestato soprattutto fuori da quel quadrato: il coming out nel corso di un’intervista a Vanity Fair era diretto proprio contro un ambiente – quello sportivo – dove l’omosessualità è ancora una parola tabù.
Di medaglie invece Bebe Vio poteva riempire un castello, ma l’oro centrato nel fioretto alle Paralimpiadi di Tokyo 2020 è speciale anche per una campionessa che sul salto dell’ostacolo ha costruito la sua fenomenale carriera. Ad aprile Bebe è finita sotto i ferri. Infezione da stafilococco, arto sinistro a rischio amputazione, morte dietro l’angolo, come raccontato anche dall’equipe medica che ha seguito la campionessa. Svanito il pericolo, rieccola in pista, allenamenti, la preparazione olimpica da rifare. Tutto daccapo. E il nuovo miracolo, l’oro ai Giochi paralimpici di Tokyo 2020, che hanno regalato all’Italia l’incredibile finale dei 100 metri, categoria amputate di gamba sopra il ginocchio: Ambra Sabatini, Martina Caironi, Monica Contrafatto, podio solo azzurro, “tre cuori e una protesi”, come raccontato ai microfoni dalla Contrafatto, che era in ospedale quando Martina Caironi vinceva i 100 metri alle Paralimpiadi di Londra 2012. La sua luce in fondo al tunnel per rialzarsi e finire sul podio a Tokyo.
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