Editoriale

Nel nuovo conflitto il fallimento della Nato

Nel nuovo conflitto il fallimento della NatoIl comando della missione italiana a Misurata

Caos libico Le «Nato» sono tre: una originale, alquanto in ribasso, una «araba», corrispondente al maggiore mercato di armi americano e occidentale e una «operativa», a direzione israeliana, dotata di armi nucleari, un’aviazione sempre in attività per tenere a bada l’Iran in Siria e aiutare il generale egiziano Al Sisi in Sinai

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 9 aprile 2019

Settant’anni e li dimostra tutti. Nel caos libico e in quello siriano emergono i fallimenti occidentali e della Nato che ha appena celebrato la sua fondazione nel 1949, in piena guerra fredda. E quando una Nato comincia proprio a scricchiolare se ne fa un’altra, magari «araba».

Il generale Khalifa Haftar, oltre a essere cittadino americano, è sostenuto da Egitto, Arabia saudita ed Emirati, ovvero da quella «Nato araba» sorta con il viaggio del presidente americano Donald Trump in Medio Oriente nel maggio 2017.

In Siria Turchia e Stati Uniti, due Paesi dell’Alleanza, sono ai ferri corti sul destino dei curdi e Putin ha buon gioco a ricevere il presidente turco Erdogan a Mosca, come ha fatto ieri, per tagliare le fette della torta siriane. Dalla Siria gli Stati uniti di Donald Trump dovevano ritirarsi ma in realtà sono ancora sul campo perché non possono abbandonare al loro destino i principali alleati nella lotta all’Isis.

Inoltre Trump ha appena certificato l’annessione israeliana del Golan per dare una mano all’amico Benjamin Netanyahu, oggi alla prova delle urne, che è il vero guardiano degli americani sul fronte sud-orientale in quanto Erdogan, che ha stretto accordi con Russia e Iran, non è più affidabile.

Le «Nato» insomma sono tre: una originale, alquanto in ribasso, una «araba», corrispondente al maggiore mercato di armi americano e occidentale e una «operativa», a direzione israeliana, dotata di armi nucleari, un’aviazione sempre in attività per tenere a bada l’Iran in Siria e aiutare il generale egiziano Al Sisi in Sinai.

In Libia gli Stati Uniti ora se ne sono andati dalla periferia di Tripoli di soppiatto, contando sulla confusione innescata dall’offensiva del generale Khalifa Haftar, un altro dei loro alleati nella guerra al Califfato, sotto l’ala protettrice di Washington dagli anni’90, quando fu abbandonato da Gheddafi dopo la sconfitta in Chad.

Che strana storia questa degli americani in Libia. Hanno sempre detestato Gheddafi sin dai tempi dei raid – effettuati per ucciderlo – sulla Libia da parte di Ronald Reagan nell’86. E per coinvolgerci nell’attacco all’ex colonia mandarono in giro la fake news che aveva lanciato dei missili contro Lampedusa, versione avallata dal Colonnello, per altro salvato diverse volte dalla punizione americana con i buoni uffici di Andreotti e Craxi. «Per giorni cercammo i resti dei due missili libici, senza mai trovare nulla, neanche una sardina morta», ha testimoniato pubblicamente il generale Basilio Cottone, allora capo di Stato maggiore dell’Aeronautica militare italiana.

Nel 2011 gli Usa si unirono ai raid dei francesi e inglesi per farlo fuori, ma dopo un mese misero a terra gli aerei lasciando che a prendere il comando fosse la Nato.

Operazione abbracciata dall’Italia che forse avrebbe fatto bene a restare neutrale nell’ex colonia nonostante gli interessi petroliferi. Poi gli Usa hanno mandato marines e forze speciali a sostenere Haftar nella lotta al Califfato e si sono dislocati anche sul fronte opposto, alla periferia di Tripoli.

E che strana storia anche quella dei marines. In Libia arrivarono nel 1802 quando gli Usa cominciarono una guerra contro il pascià di Tripoli sul passaggio delle navi nel Mediterraneo. Un’impresa ricordata persino nel loro inno: From the halls of Montezuma, to the shores of Tripol / Dai saloni di Montezuma, alle spiagge di Tripoli.

L’altro giorno i marines si sono involati con un hovercraft senza cantare alcun inno e alla chetichella dalla spiaggia di Janzour, alla periferia di Tripoli. lasciandosi alla spalle il governo di Al Sarraj e le insidiose delizie del resort di lusso Palm City, una colata di cemento destinata a turisti che non sono mai arrivati. La Libia non è un posto di vacanze né di porti sicuri. La decisione di evacuare è stata presa dal generale dei marines e comandante di Africom Thomas Waldhauser.

Forse gli americani volevano evitare guai, memori dell’uccisione con la sua scorta dell’ambasciatore Usa Chris Steven nel consolato di Bengasi l’11 settembre del 2012. Oppure si preparano a cambiare politica, o a tornare, in forze visto che, – in sintonia con l’offensiva – hanno appena nominato un ambasciatore plenipotenziario in Libia, Richard Norland, già consigliere politico del Pentagono.In realtà prima o poi gli Stati uniti vorranno far funzionare anche la Nato «araba» con il generale Al Sisi, l’Arabia Saudita ed gli Emirati, tutti amiconi del generale Khalifa Haftar, nemici giurati dei Fratelli Musulmani e ottimi clienti delle armi Usa.

E, guarda caso, a sostenere il governo di Tripoli, insieme all’Italia, sono Qatar e Turchia, avversari delle monarchie del Golfo.
Gli Usa, che sembrano così restii a essere coinvolti in Libia, hanno un certo interesse a piazzare una base sulle sponde del Mediterraneo, il che farebbe perdere all’Italia ancora un po’ del suo peso strategico. Per ottenere questo obiettivo non è neppure così necessario avere un Libia riunificata: la Siria non lo è e non lo sarà mai più, con il Golan occupato dagli israeliani, l’Iraq è una nazione sempre in odore di disgregazione, all’Iran ci pensano Israele e le sanzioni. Un quadro perfetto, non è vero?

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