Il commento della settimana Manuela Manera | A livello individuale la dimenticanza si può perdonare. È però grave se avviene in un articolo giornalistico, perché mette in luce o una scarsa competenza o, peggio, un uso strumentale delle informazioni. Quando Ricolfi su Repubblica afferma che è sufficiente l’indicazione di Meloni di essere chiamata al maschile per “scatenare critiche, battute, ironie” compie un atto tendenzioso, tacendo la storia di un dibattito che in Italia è vivo da quasi 40 anni (A. Sabatini, Il sessismo nella lingua italiana, 1987). È reticente anche nel ricordare l’antecedente opposto, quello di Boldrini che volle per sé il femminile e fu oggetto di hate speech.
In questi ultimi anni le polemiche sono state soprattutto sulle strategie tese a garantire una giusta rappresentazione a tutte le soggettività, introducendo nuovi simboli come l’asterisco (es. ragazz*) o la schwa (es. ragazzə). Strategie in uso già da una decina d’anni in gruppi ristretti e che ora si stanno diffondendo per libera scelta di chi costruisce una comunicazione e la vuole rispettosa delle differenze. Ricolfi confonde le battaglie per il riconoscimento dell’identità di genere (quindi la scelta di come nominarsi, se al maschile, al femminile o altro) con l’opportunismo di chi ricorre al maschile solo in certi momenti.
Nel caso di Meloni – ma non è la sola – la scelta non riguarda la sua identità di genere ma un ruolo che lei interpreta in modo machista; tant’è che si rivendica donna, madre, cristiana, e in questi casi non declina al maschile. La sua è la sottolineatura, nel solco di una cultura patriarcale fortemente rivendicata, che il maschile è portatore di prestigio, il femminile no.
Di fronte a ciò, non è affatto “curioso” che il sindacato delle giornaliste e dei giornalisti Rai abbia fatto una scelta: non l’ha fatta oggi, ma è frutto di un lavoro di formazione lungo anni e che ha riscontro nel Manifesto di Venezia (2017) ed è ribadito con l’articolo 5 bis nel Testo unico dei doveri del giornalista (2021).
Non esiste una guerra dei pronomi. Anche questo è un modo parossistico di indicare qualcosa che è molto semplice: si tratta di rispetto. E se, a differenza del passato, oggi abbiamo maturato questa sensibilità in più per migliorare le relazioni, è un passo avanti, non indietro; è una fatica rispettare le altre persone?
Sarebbe ora di dare le informazioni in modo corretto: le persone non binarie non hanno problemi a percepirsi, ma si sottraggono a un rigido incasellamento, disconoscendo la classificazione in “o maschio o femmina”; la scelta di strategie come per esempio la schwa non è solo collegata a questioni identitarie ma rappresenta una messa in discussione di un sistema sociale gerarchico, discriminatorio e oppressivo.
È curioso come, soprattutto da parte di chi dovrebbe avere più elasticità mentale, ci sia il terrore del cambiamento: un cambiamento che significa meno discriminazioni, meno oppressioni, meno violenza, meno misoginia, meno omolesbobitransfobia.
Sbagliare un pronome non ha mai portato ad accuse, processi o licenziamenti: sarebbe anche qui il caso, per chi scrive un articolo, di verificare fonti e ricostruire le vicende in modo completo e corretto. Ma non conviene farlo perché, come quando si accende la luce in una stanza buia, ci si accorgerebbe che i mostri non sono altro che ombre proiettate dall’immaginazione. Quei mostri servono, sono invocati e alimentati (attraverso meccanismi retorici ben noti a chi studia la comunicazione) per uno scopo: la paura, si sa, è utile a chi ha il potere e vuole difendere il proprio status. E per farlo si travisano le informazioni e si ricorre a un lessico che sovrascrive la realtà. Ecco allora che si parla di “galateo” e non di diritti, si invoca il “benaltrismo” (i veri problemi sono altri) a cui Ricolfi aggiunge la tutela verso le classi sociali svantaggiate: l’umiliazione dei ceti bassi, infatti, non sarebbe data dal sistema capitalistico-liberale e patriarcale ma dal diffondersi di alcune proposte comunicative che implicherebbero una frattura sociale!
Peccato che certe proposte derivino proprio da quel “basso” che non si interpella mai perché fa comodo tenere silenziato. Dare voce a soggettività discriminate per l’identità di genere, infatti, è rischioso; significherebbe far luce e smontare le ombre minacciose: allora sarebbe evidente che quella che viene definita “spasmodica attenzione alla sensibilità individuale” è “rispetto”.
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