Il commento della settimana Luca Celada | Nel 2020 il voto popolare lo sfavorì con un margine di sette milioni di voti e, malgrado i tentativi di sovvertire il risultato, anche nel Electoral College. Nell’incertezza profonda della vigilia, l’unico pronostico affidabile è – forse – che nella notte tra martedì e mercoledì (nella mattinata italiana) Donald Trump annuncerà la propria vittoria e che lo farà con maggiore foga se le proiezioni, a spoglio ancora in corso, dovessero, in quel momento, sfavorirlo.
Esiste, certo, la possibilità che si profili una effettiva vittoria di Trump, ma è più probabile che, soprattutto negli stati chiave dove i margini si preannunciano millimetrici, si debba attendere forse fino ad alcuni giorni prima di conoscere l’esito effettivo del voto. È in questo scenario che si potrebbe plausibilmente ripetere il tentativo di sovvertire il risultato con una strategia delle «elezioni rubate».
NON SOLO il partito di Trump non ha mai ammesso la sconfitta del 2020, confermata da ogni verifica e ribadita dai tribunali in 64 ricorsi su 65, ma ha preparato il terreno per una replica delle false accuse. Per preparare il terreno, Trump ha continuamente assicurato ai sostenitori una schiacciante vittoria. Il tycoon e i suoi luogotenenti vanno ripetendo da mesi che solo vasti brogli potrebbero quindi spiegare una eventuale sconfitta. Nelle ultime settimane il partito ha accentuato le insinuazioni e le paradossali accuse di stranieri importati per votare illegalmente e ripreso le fake news su schede false predisposte dai democratici e su terminali di voto hackerati dallo stato profondo (o a scelta, dalla Cina). Un tam tam di disinformazione affatto rallentato dalla assoluta mancanza di prove, e amplificato nella infosfera dei podcast di destra, veicolata soprattutto dai social di Elon Musk al suo vasto pubblico di 200 milioni di follower, un martellamento devastante sulla fragile tenuta dei fatti verificabili (e immune dalle condanne per diffamazione editoriale che quattro anni fa costarono invece oltre 700 milioni di dollari in danni all’emittente Fox News).
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MENTRE HANNO già votato per corrispondenza 70 milioni di cittadini, la prima fase del «piano B» è dunque già in atto. Giovedì scorso Trump ha denunciato la presenza di 2.600 schede false a Lancaster County in Pennsylvania. Venerdì è rimbalzato in rete un video che ritraeva un «immigrato haitiano» in procinto di distruggere schede pro Trump. Anche se il deep fake è stato subito collegato a una troll farm russa, la dezinformatsiya è notoriamente immune alle rettifiche, né suscettibile a smentite, atta semmai ad attivare il «bias di conferma» tra i già convinti, insinuare sospetto e seminare generale confusione. Per lo zoccolo duro vale la dichiarazione di Tucker Carlson: «Stavolta non accetteremo mai la falsa sconfitta». La promessa è un’implicita minaccia e da mesi vengono fomentati i sospetti e organizzate contromisure. Trump ha spesso parlato di «inondare» i seggi di osservatori volontari per prevenire la frode. I preparativi evocano lo spettro del 2020, quando folle inferocite assediarono i centri di spoglio chiedendo di «fermare il furto!» (stop the steal!).
Per contromisura le sedi quest’anno sono state fortificate. A Maricopa, contea di Phoenix in Arizona e centro di complottismo negazionista, l’ufficio di spoglio sarà sorvegliato da droni e da cecchini sui tetti. A Detroit sono stati installati vetri antiproiettile, a Philadelphia i magnetometri, scene che fino a dieci anni fa sarebbero state fantapolitica. E se mai ci fosse bisogno di fotografare ulteriormente un federalismo pericolosamente vicino alla disgregazione, negli “stati rossi” (Texas, Arkansas, Missouri, Florida) rifiutano di accreditare osservatori del ministero federale di giustizia.
È UN’ATMOSFERA propizia alla fase due del piano. Se si profilassero, come del tutto probabile, dei testa a testa in uno o più degli stati chiave, verrebbero immediatamente formalizzati ricorsi nei tribunali in base a presunte irregolarità. Lo scopo primario sarebbe di congelare eventuali spogli sfavorevoli e incrementare la confusione entro la quale far salire la pressione politica, lo scenario della Florida nel 2000 quando Al Gore, vincitore del voto popolare, perse “a tavolino” dopo un braccio di ferro su 538 voti irregolari in Florida.
Entrambi i partiti hanno predisposto squadre di legali operativi già da mesi e, gli avvocati del Gop hanno già sporto più di cento denunce «preventive». In Michigan e Pennsylvania sono state respinte ad esempio richieste di limitare lo spoglio di schede provenienti da elettori residenti all’estero e venerdì la Corte suprema ha ugualmente scartato la richiesta di squalificare schede per corrispondenza cui venisse per errore omessa la data.
Ma, terza fase del piano, il partito di Trump sta anche esercitando pressioni sulle commissioni elettorali. Nel 2020 Trump aveva telefonato di persona a presidenti di commissione di alcuni stati, per «far saltare fuori» i voti necessari. Allora il rifiuto di alcuni funzionari, repubblicani ma coscienziosi, fecero la differenza respingendo le pressioni. Molti però, da allora, sono stati rimossi dal partito e sostituiti con personale più «affidabile». Come quelli che hanno introdotto nuove regole che permetterebbero alle commissioni anche di piccole circoscrizioni di «sospendere» unilateralmente la certificazione per condurre «indagini» su ipotetici brogli.
DOPO la certificazione da parte degli stati è prevista la ratifica definitiva da parte del Congresso e attorno a questa potrebbe espletarsi la quarta fase del piano. Già quattro anni fa l’operazione fu di introdurre grandi elettori «alternativi» selezionati dai parlamenti degli swing states per favorire Trump. Allora il piano fallì perché il Congresso li rifiutò ed il vice Mike Pence ratificò il risultato originale.
Quest’anno il vice presidente che presiederà la seduta plenaria del 6 gennaio sarà Kamala Harris, ma è anche vero che la delegazione di parlamentari Maga sarà assai più numerosa e in grado forse di imporre un voto per respingere la ratifica. E quella data non potrà ormai che tornare a evocare il drammatico assalto a Capitol Hill.
A MONTE di tutto incombe la Corte suprema, che come massima autorità giudiziaria potrebbe risultare decisiva nel dirimere una crisi costituzionale e assegnare la presidenza contesa. Stavolta con una schiacciante maggioranza di togati dichiaratamente favorevoli a Donald Trump. |