Il commento della settimana Tommaso Nencioni | Quando si produce una crisi, da una parte i ceti medi vedono svanire, assieme alla loro capacità acquisitiva, la propria sicurezza ed il proprio status sociale; dall’altra vengono meno i meccanismi in base ai quali nuove fasce di popolazione potevano essere cooptate all’interno della sfera del benessere e della fedeltà ad un certo sistema politico.
Questo ci aiuta a comprendere la lunga durata e la particolare intensità della crisi italiana, che si avvita su se stessa da più tempo, e colpisce più duramente il sistema politico e sociale, a causa dei tratti peculiari, dal punto di vista quantitativo e qualitativo, del ceto medio del nostro Paese. Storicamente l’Italia “produce” più ceto medio di quanto le sarebbe necessario. Si potrebbe dire che, da Giolitti al fascismo alla Dc, governare in Italia significa “produrre” ceto medio: siccome i nostri gruppi dirigenti non sono stati capaci di rispondere per via democratica alla spinta dal basso dei gruppi subalterni, hanno reagito sia attraverso la repressione sia attraverso la creazione “artificiale” di ceto medio al fine di diluirla.
Una tendenza che possiamo ravvisare in una serie di scelte politiche e di conseguenti misure legislative. Si pensi all’avversione nei confronti dello sviluppo delle cooperative di consumo a favore della capillarità del commercio al dettaglio. O all’incentivo al possesso della casa a detrimento dello sviluppo dell’edilizia pubblica e del calmieramento degli affitti. O ai servizi legati al turismo come unica via di sviluppo per troppe nostre città.
O ancora, soprattutto, allo smantellamento della grande industria a favore del recupero in via subordinata della piccola e piccolissima impresa: piccolo è bello, si è ripetuto, laddove in realtà il “piccolo” era funzionale allo smantellamento della grande fabbrica, epicentro dell’insubordinazione sociale, operazione che ha permesso la ripresa dei profitti e la pacificazione sociale, ma a costo dell’arretramento del Paese nella divisione internazionale del lavoro. Al di là della propaganda, quando si parla di ipertrofia dei ceti medi non bisogna riferirsi tanto ai dipendenti pubblici, il cui numero anzi rimane al di sotto della soglia del buon funzionamento dello Stato, quanto al settore del lavoro autonomo.
Ne discendono, da questo insieme di scelte politiche, due caratteristiche del ceto medio italiano: la sua pervasività e la sua turbolenza, giacché la sua ipertrofia non permette di veder soddisfatte gran parte delle sue aspettative. Il ceto medio, che altrove nei regimi capitalistici ha assunto la funzione di stabilizzazione della democrazia liberale, da noi ha assunto invece nei tornanti-chiave della storia del Paese carattere eversivo.
Questo modello di sviluppo ha avuto benefici nell’immediato per i dominanti – il contenimento della spinta rivoluzionaria dei ceti subalterni – ma anche costi, in termini di sviluppo economico complessivo, di permissivismo fiscale, di orientamento verso i consumi individuali anziché pubblici (la diffusione l’automobile a discapito di una efficiente rete di trasporti pubblici ecc.). Il modello è andato incontro alla crisi a cavallo tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 del secolo scorso: da un lato è venuta meno la minaccia rivoluzionaria e con essa la necessità di diluirla; dall’altro, con l’adesione al trattato di Maastricht, sono venuti meno alcuni dei meccanismi che avevano permesso di tenere in vita artificialmente il corpaccione del ceto medio nostrale: debito pubblico incontrollato e svalutazioni competitive della moneta.
Da allora il ceto medio, sedotto e abbandonato, ha cominciato a travolgere ad ondate successive il sistema politico italiano, sebbene in direzioni non univoche: leghismo e berlusconismo sono una cosa, grillismo un’altra, ma pur sempre figli della turbolenza dei ceti medi. |