Editoriale

Non volevamo più essere i «sempliciotti» di Rousseau

Non volevamo più essere i «sempliciotti» di RousseauLa prima uscita pubblica del gruppo-rivista il manifesto. Roma, Teatro Eliseo, 15 febbraio 1970 – Fausto Giaccone

Da quel 28 aprile a Pisa La nostra impresa sembrava un azzardo. Eppure sconvolse completamente il modo di fare un giornale, un modo di fare giornalismo, un modo di fare politica

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 30 aprile 2021

La mattina del 28 aprile 1971 a Pisa, a Piazza Dante, il giornale era già esaurito. Nelle edicole e nelle mani di noi volontari non era rimasta una sola copia del primo numero del manifesto. Stupore e gioia.

Fino alla sera prima fra noi del Centro Pisano del Manifesto vi era molta incertezza. L’impresa sembrava un azzardo. Eppure sconvolse completamente il modo di fare un giornale, un modo di fare giornalismo, un modo di fare politica.

Quattro pagine soltanto di un quotidiano che si dichiarava comunista sia nell’intestazione sia nell’editoriale di Luigi Pintor, quattro pagine dove tutto si intrecciava senza confondersi: politica interna, politica estera, dibattiti culturali, recensioni a libri, critica cinematografica, critica letteraria, filosofia.

Era l’idea fatta giornale della politica come forma di conoscenza pratica e teorica dove l’analisi critica del presente era volta a un’idea di cambiamento rispettoso della storia e del passato ma anche con lo sguardo rivolto al di là dell’orizzonte offerto dalla quotidianità, nel futuro, pur vivendo e partendo dalla quotidianità stessa, dagli eventi del giorno, da ciò che Hegel e Merleau-Ponty avrebbero definito la prosa del mondo.

Era possibile fare un giornale diverso, fuori dai canoni tradizionali che relegavano, per esempio, la cultura alla terza pagina.

Si intrecciavano il piacere della critica all’evento politico e il piacere della critica al sapere. Non c’erano né i cellulari né i social. Il mondo non era «online» eppure apprendevamo più cose del mondo di quanto le apprendiamo oggi con tutti i mezzi tecnologici che abbiamo a disposizione.

Sto esagerando? Non credo. Non c’è peggior cieco di chi non vuol vedere e oggi vediamo meno cose di un tempo e in orizzonti più ristretti. Più cresce la globalizzazione meno gli orizzonti si allargano. È il paradosso che segna l’efficacia del dominio capitalistico di oggi.

Negli anni ’70 la fine del futuro non era ancora giunta. Arrivò dopo, con «there is no alternative», con i due decreti culturali e ideologici che sancivano la fine della storia e la fine delle ideologie.

Rousseau, scrisse qualcosa come: «Il primo che disse “questo è mio” e trovò delle persone così sempliciotte da credergli, determinò la nascita della proprietà privata e della diseguaglianza». La cosa si è ripetuta in grande con il neoliberismo. Consapevolmente o meno, (quasi) tutti oggi – anche molti che affermano il contrario – in fondo credono che non vi sia alternativa, che la storia si è fermata, che le ideologie sono finite.

Nonostante le apparenze, nonostante il corso del tempo, non sono, non siamo così diversi da quelle persone sempliciotte e credulone di Rousseau.

O almeno, a voler mantenere il senso e la forza della critica, è bene che il dubbio ci assalga.

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