Razzismo e parole
«Le tensioni esplose dopo l’uccisione da parte della polizia di un giovane di colore alla periferia di St. Louis, dimostrano quanto sia ancora viva e drammatica negli Stati uniti la […]
«Le tensioni esplose dopo l’uccisione da parte della polizia di un giovane di colore alla periferia di St. Louis, dimostrano quanto sia ancora viva e drammatica negli Stati uniti la […]
«Le tensioni esplose dopo l’uccisione da parte della polizia di un giovane di colore alla periferia di St. Louis, dimostrano quanto sia ancora viva e drammatica negli Stati uniti la questione razziale».
Scheggia di un notiziario qualsiasi, un telegiornale grossomodo di area Pd, politicamente corretto e . Che dimostra a sua volta quanto invece viva sia la questione razziale nella nostra lingua italiana, ovvero nel pensiero politico che ne plasma l’impiego, inconsciamente o meno…
Molti hanno trovato esagerata la levata di scudi contro il ministro degli Interni che resuscita un epiteto un po’ vintage, antipatizzante e denigratorio, per definire “loro”, gli altresì definiti extracomunitari, o clandestini, o peggio ancora negri, marocchini ecc. (bene che vada sono i migranti, genericamente ed eventualmente profughi, rifugiati). Il vu cumprà buttato lì da Alfano in fondo insiste sulla funzione, è un po’ canzonatorio come storpiatura linguistica, ma come accade a Roma con il pesciarolo e lo stracciarolo, non implica in sé accezioni dispregiative particolari. Certo, anche il termine negro cambia di segno se lo si ritrova in un saggio di Amiri Baraka, in una poesia di Senghor o su un manifesto del Ku Klux Klan. Quindi Alfano farebbe meglio ad astenersi.
«Ragazzo di colore» insiste invece sulla distanza, l’esotismo vero, l’alterità, la «linea del colore» appunto. Un modo vago e indistinto, anche un po’ ipocrita se vogliamo, visto che tutti in fondo siamo di qualche colore, per definire una persona sulla base della pelle. Come l’arredamento “etnico” e la musica “world”, è una notte in cui tutte le vacche sono nere, cioè di colore.
A stigmatizzare questo costume lessicale che evidentemente unisce destra e sinistra, senza risparmiare sinceri appassionati di blues, lettori di Toni Morrison e fanatici del cinema blacksploited (come in Fa’ la cosa giusta di Spike Lee, il razzista più patetico è quello che adora Prince e Michael Jackson), ci aveva provato anche l’ex ministra Kyenge. Quando, per rintuzzare le uscite bingo-bongo del leghista di turno, esclamò con sufficiente orgoglio: «Io non sono di colore, sono nera». Say it loud, I’m black and I’m proud urlava James Brown. Ma le orecchie spesso sentono senza ascoltare. E non c’è peggior razzista di chi non vuol mettersi in ascolto.
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