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Rugby, la qualità veste di nero

Rugby, la qualità veste di neroLa haka degli All Blacks neozelandesi prima dell'incontro – Reuters

Gli All Blacks vinsero l’ultima edizione della coppa del mondo di rugby battendo con un solo punto di scarto la Francia. Non era la finale che tutti si aspettavano all’inizio […]

Pubblicato circa 9 anni faEdizione del 25 ottobre 2015

Gli All Blacks vinsero l’ultima edizione della coppa del mondo di rugby battendo con un solo punto di scarto la Francia. Non era la finale che tutti si aspettavano all’inizio del torneo: se la Nuova Zelanda non poteva mancare a quell’appuntamento – giocava in casa, con l’appoggio dell’intero Paese -, la Francia era invece giunta all’Eden Park di Auckland con due sconfitte sul groppone (entrambe nel girone di qualificazione, con All Blacks e Tonga) e solo in virtù del meccanismo dei punti di bonus. Nei quarti aveva poi battuto una mediocre Inghilterra e in semifinale aveva avuto la meglio sul Galles: di strettissima misura (9-8) pur giocando quasi tutta la partita con un uomo in più per il cartellino rosso comminato a Sam Warburton, il capitano dei dragoni.

Eppure fu una finale apertissima. Gli All Blacks segnarono una meta nel primo tempo con Tony Woodcock, cui replicò all’inizio del secondo tempo il gigantesco Dusautoir, il capitano francese. Con un solo punto di vantaggio e un intero tempo di gara davanti, i neozelandesi videro materializzarsi i peggiori fantasmi: ancora una volta il destino sembrava pronto a frasi beffe di loro. Giocarono con la paura addosso, contro un avversario che aveva sentito l’odore del sangue, ma non persero la loro lucidità. Per più di mezz’ora, un tempo che a tutti parve interminabile, difesero a denti stetti il loro punto di vantaggio e riuscirono a non compiere un solo fallo in quell’area del campo di gioco che avrebbe consentito ai francesi di calciare tra i pali. E ci riuscirono, portando a casa la sospiratissima William Webb Ellis Cup che da più di vent’anni sfuggiva loro.

Alla fine l’eroe della partita fu Stephen Donald, una quarta scelta tra i mediani di apertura, dopo che un’incredibile serie di infortuni avevano tolto di scena prima Dan Carter, poi Colin Slade e infine Aaron Cruden. Fu infatti Donald a mettere a segno il calcio di punizione che avrebbe garantito agli All Blacks l’esiguo ma decisivo vantaggio.

Scherzi del destino

Da quel giorno di ottobre del 2011 la Nuova Zelanda ha perso soltanto tre partite. Si è insediata saldamente ai vertici della classifica mondiale e di lì non si è più mossa, lasciando tutte le altre potenze del rugby in lotta per la piazza d’onore.

A questa coppa del mondo la squadra è dunque arrivata con i favori dei pronostici, nonostante la sconfitta in estate contro l’Australia che le è costata il titolo nell’International Championship. Ha poi vinto tutti i match nel girone di qualificazione (Argentina, Namibia, Georgia e Tonga) ma non ha mai entusiasmato. E come sempre quando si tratta degli All Blacks, è arrivato il quesito: che Nuova Zelanda è, quella che abbiamo finora visto? Risposte possibili: a) per gli All Blacks i match del girone sono stati un rodaggio in vista delle sfide più impegnative, dai quarti di finale in poi; b) ancora una volta la squadra arriva ai mondiali con più dubbi che certezze, con addosso i soliti tarli che in tante, troppe occasioni, hanno finito per giocarle brutti scherzi.

La storia del destino avverso è un topos del rugby neozelandese. Come sappiamo, nel 1995, nel 1999, nel 2003 e nel 2007, i fortissimi e favoritissimi All Blacks furono battuti nei modi più strani e imprevedibili. Per ben quattro volte la coppa del mondo sfuggì loro per errori, dubbi, presunzione. O, appunto, semplici scherzi del destino.

Ma in questa edizione del mondiale, giunti alla prima sfida decisiva – il quarto di finale contro la Francia – gli All Blacks hanno messo le cose in chiaro. Mai si è vista, nella storia della coppa del mondo, una squadra vincere un knock out, le sfide a eliminazione diretta, con tanto agio e con tale dimostrazione di forza: 62-13, nove mete a una. Era un ben povera Francia, quella vista in campo al Millennium di Cardiff, ma davanti a sé ha trovato una formazione che ha sciorinato un rugby che sembrava arrivare da un altro pianeta. Per semplicità, solidità, varietà nelle opzioni di gioco, qualità degli interpreti, il quindici in maglia nera è sembrato inarrivabile. E oggi o in semifinale affronta il Sudafrica, nella sfida delle sfide. Fino a oggi le due grandi nazioni si sono incontrate 90 volte: 52 volte hanno vinto gli All Blacks, 35 gli Springboks, 3 i pareggi.

Il piacere del gioco

Ci sono differenze tra questi All Blacks e quelli che vinsero il titolo quattro anni fa? Sì, ci sono: questi sono più forti. Da allora, da Auckland 2011, è come se tutto la macchina del rugby neozelandese non si fosse mai fermata, migliorando di stagione in stagione, correggendo eventuali storture, semplificando le cose più difficili, facendo insomma di quella nazione la culla del rugby professionistico, a partire dalla selezione nei club per poi proseguire nelle franchigie e arrivare infine alla nazionale maggiore.

Dopo i quarti di finale si è fatto un gran parlare di come il Sud del mondo abbia cancellato il Nord. Con qualche luogo comune di troppo. Si è detto che laggiù, nell’emisfero australe, si gioca per divertirsi, mentre al Nord, dalle parti delle vecchie home unions o nella Francia del fu rugby champagne, si venera il dio denaro a dispetto del piacere del gioco. Messa così, è un po’ troppo facile. E’ vero che il campionato inglese e quello francese sono i più ricchi del mondo; che i budget milionari di alcuni club hanno attirato i campioni di tutte le parti, spesso a discapito dei talenti di casa; e che tutto questo non ha impedito alla Francia e all’Inghilterra di fare una misera fine in questi mondiali. Ma il professionismo nel rugby è in vigore da vent’anni, non dall’altro ieri. E i soldi girano da un bel po’ di tempo, a nord come a sud. Forse è la cura del talento e il modello tecnico-organizzativo a fare la differenza.

Quanto al “bel gioco”, è bene fare qualche distinzione.

L’Australia lo ha sempre coltivato, anche a discapito di una certa praticità, e con il suo approccio ha vinto due coppe del mondo. Per rafforzare la mischia e le fasi statiche ha però chiamato un argentino, Mario Ledesma, tallonatore dei pumas che giunsero terzi ai mondiali 2007, dove sconfissero due volte i francesi e una volta l’Irlanda.

Il Sudafrica è ancorato a un modello di gioco che è più o meno lo stesso da un secolo a questa parte: è un rugby fisico e brutale che poco concede all’estetica, sebbene non manchino i grandi campioni. Gran calcioni a bombardare le retrovie avversarie e carica a testa bassa con la fanteria pesante: è il loro rugby, la loro cultura di questo sport. Anche loro, due volte campioni del mondo.

La Nuova Zelanda ha avuto varie epoche e il suo gioco si è sempre sviluppato cercando nuove soluzioni. Gli All Blacks dei primi anni Sessanta, quelli di Allen e di Colin Meads, erano assai diversi non solo dagli “invincibili” di Porter e Nepia negli anni Venti, ma anche da quelli che vinsero il titolo nel 1987 o da quelli di oggi. Diverse le epoche, diverse le tecniche di gioco, diversi anche i terreni su cui ci si cimentava: per anni il rugby neozed è stato sinonimo di fango e campo pesante. Con una costante: giocano i migliori, i più in forma, senza nulla concedere al sentimentalismo. Se a 34 anni suonati e con 146 test-match disputati, McCaw è ancora in squadra è perché la sua leadership è indiscussa e nel ruolo di open-side flanker è ancora il più forte di tutti. Se Dan Carter, 33 anni e 110 presenze, è titolare nel ruolo di apertura, è perché continua a sbaragliare la concorrenza interna.

A nessun selezionatore degli All Blacks non solo non verrebbe mai in mente di chiamare un giocatore per saldare un vecchio debito di riconoscenza ma neppure di inserirlo in squadra per ragioni del cuore, per la commozione del pubblico sugli spalti o di qualche giornalista. Ve lo ricordate Israel Dagg? Uno dei migliori estremi del mondiale (vinto) del 2011. Bene, a soli 27 anni è rimasto a casa perché il coach Steve Hansen gli ha preferito Ben Smith e Nehe Milner-Skudder: “Grazie per quello che hai fatto, ma adesso tocca a un altro”. Scelta fin qui vincente.

Sulla qualità del gioco degli All Blacks c’è poco da discutere. Non è questione di “bel gioco” alla mano o di potenza del pack: a fare la differenza sono la velocità, le qualità tecniche individuali, i dettagli. Gli skills, come si dice nel linguaggio del rugby, che ogni allenatore che approda su quella panchina valuta meticolosamente. Se mai il rugby ha acquisito una dimensione “scientifica”, e se mai la programmazione è andata di pari passo con la crescita del binomio qualità/quantità, questo è accaduto in Nuova Zelanda.

Oggi vedremo se tutto questo avrà la meglio sul rugby brutto e cattivo degli Springboks. O se invece il destino avverso è ancora lì in agguato, pronto a colpire.

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