Serve Wittgenstein per capire ChatGpt
Scenari Abbiamo macchine che producono frasi in modo eccellente, ma avendo accantonato la domanda sul significato non sappiamo bene perché lo fanno. Ecco da dove viene l’ansia che ci percorre
Scenari Abbiamo macchine che producono frasi in modo eccellente, ma avendo accantonato la domanda sul significato non sappiamo bene perché lo fanno. Ecco da dove viene l’ansia che ci percorre
L’avvento dei generatori automatici di linguaggio basati su modelli estratti dai testi, insomma di cose come ChatGPT o Bard, coglie l’umanità a corto di filosofia. Se il Novecento fu il secolo della svolta linguistica, cioè dell’idea che tutta la filosofia fosse una filosofia del linguaggio, gli anni Duemila hanno consegnato il pensiero sui fondamenti della vita psichica e sociale all’intelligenza artificiale, cioè in ultima analisi all’ingegneria del software e alla sua industria.
Oggi iniziamo a toccare con mano le conseguenze di questa svista: abbiamo macchine che producono frasi in modo eccellente, ma avendo accantonato la domanda sul significato non sappiamo bene perché lo fanno. Ecco da dove viene l’ansia che ci percorre.
Bisogna allora tornare alla svolta linguistica novecentesca per cercare qualche indizio su ciò che si sta agitando sotto le nostre tastiere. Bisogna tornare a colui che di quella svolta fu il perno: Ludwig Wittgenstein. Per capire il pensiero del filosofo viennese si può partire dalle sue metafore: il linguaggio come gioco le cui regole si inventano giocando, la comprensione di una frase come l’ascolto di una melodia, il senso come assonanza, come “somiglianza di famiglia” tra usi linguistici, la proposizione che scrive (non de-scrive) gli stati di cose “di suo pugno”, la lingua come una città dove si accumulano, nelle epoche, diverse architetture, ciascuna riflesso delle condizioni concrete dell’esistenza.
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Intelligenza artificiale, l’Europa in difesa del “cittadino bianco”Si tratta di ciò che è stato chiamato “espressivismo”: è la produttività spontanea ciò che dà forma alle nostre parole e alla nostra stessa esistenza. Nel linguaggio, come nel pensiero, come nella vita, non c’è nulla che sia già dato, nulla che vada cercato fuori: quella ricerca sarebbe ancora linguaggio.
Produzione e ricezione di significato sarebbero dunque esperienze guidate da una “grammatica superficiale” (Oberflächengrammatik) di tipo combinatorio, come appunto quella che sottende la disposizione delle note in una melodia. Se questo fosse vero, allora avremmo un indizio per capire perché la generatività linguistica dei nuovi automi sia così potente. La capacità di analizzare l’integrale della testualità umana, di censirne totalmente le sequenze con quell’attenzione ossessiva che le reti neurali sanno dedicare alle “somiglianze di famiglia”, unita alla altrettanto grande capacità di riprodurre queste somiglianze, possono spiegare bene ciò che succede oggi all’altro capo dei nostri browser.
Ma davvero il linguaggio è così “superficiale”, davvero si tratta di musica? Forse, ma in ogni caso questa non è la sua unica verità. Wittgenstein non rifiuta l’idea di una “grammatica profonda” (Tiefengrammatik) dove entrano in gioco inferenze situate nel contesto reale, o la distinzione tra “forma vuota” (Hohlform) e “forma piena” (Vollform), dove la prima è l’aspettativa indotta dal campo di forze della grammatica superficiale, la seconda il suo adempimento fattuale.
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L’idea più pericolosa dei padri di AI è che non ci sia via di scampoIl viennese infatti (con un po’ di disinvoltura) ci informa che “nel linguaggio, aspettativa e adempimento si toccano”, lasciando a quel “toccarsi” tutta la misteriosa magia della semantica. Alla fine, dunque, tenere insieme parole e fatti è un concreto impegno del soggetto: un tema di ethos. La stessa conclusione di Aristotele, in fondo, ma senza metafisica.
Ecco che Wittgenstein ci indica il punto critico dei nuovi automi: la soggettività. Al di là della responsabilità legale dell’esercizio di tali sistemi, chi si impegna quando l’automa parla? La risposta breve è: nessuno. E in questo nulla, in questa eclissi del soggetto, sta crescendo oggi una gigantesca industria. Tale processo non potrà essere fermato reprimendo una imprenditoria fattasi ormai Stato, né potrà essere governata con apparati burocratici, tanto meno coi pannicelli di certe pseudo-tutele.
Bisogna invece dirigerlo attivamente per far sì che la pluralità umana dei soggetti, delle culture e delle imprese vi trovino nuove ed equilibrate opportunità. C’è bisogno di costruire una nuova alleanza tra ricerca tecnologica e ricerca sociale, possibilmente non limitata alle invocazioni dei convegni e dei simposi.
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