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Togliatti, quello vero

Palmiro TogliattiPalmiro Togliatti – (Archivio)

Dall'archivio In occasione del sessantesimo anniversario della morte di Palmiro Togliatti, ripubblichiamo un commento di Rossana Rossanda a partire dal libro di Luciano Canfora "Togliatti e i dilemmi della politica". Dal manifesto del 18 marzo 1989

Pubblicato 3 mesi faEdizione del 20 agosto 2024

Una lettura refrigerante il volumetto di Luciano Canfora su «Togliatti e i dilemmi della politica», Bari, Laterza 1989. Per lo stile elegante, il sorriso con il quale lo storico vede i Della Loggia, i De Felice – perfino certe facilità di Paolo Spriano – insomma i «posteri» ansiosi di scaricare Togliatti con lo stesso aplomb con cui erano stati cantori del partito, la stessa assenza di problematicità, la stessa sconfinata fiducia nella smemoratezza altrui.

Tuttavia il libro – che i presi a bersaglio si sono ben guardati dal confutare – va oltre la denuncia del filisteismo, per affrontare con penna leggera una questione pesante di storiografia: quali che siano le passioni che nutrono il ricercatore, fare storia non è stendere una requisitoria. Il monito vale anche per la maggior parte dei lavori sulla Rivoluzione francese degli ultimi anni. Ma restiamo a Togliatti: fare la sua storia significa ricostituire il contesto effettivo in cui operò, e in esso il valore esatto delle scelte e persino il significato delle parole, nelle quali si situa il personaggio. Questo non esime dal giudizio morale, lo fonda. I dilemmi della politica ci sono, e possono essere laceranti; certo non si possono scambiare con le approssimative proiezioni d’una polemica a breve respiro, che scarta o seleziona quel che le fa comodo.

Sostiene Luciano Canfora, rivisitando la cultura degli anni venti e trenta, anzitutto che l’écmsez l’infame che oggi si getta sul comunista, sulla III Internazionale e sull’Urss era lungi dall’essere corrente anche fra i non comunisti. Ma non per mancanza di notizie o gravita di illusioni, bensì perché l’Ottobre e l’Internazionale non sono riducibili alle scelte interne dello stalinismo, e neppure alla sua natura.

Il 17 non si riduce allo stalinismo

Come tutte le rivoluzioni, il 1917 scatena speranze, da voce a bisogni, ristruttura l’idea di sé e delle società in tutto il mondo. E, in secondo luogo, l’interesse per l’Urss risponde – si precisa nel volumetto a proposito di Granisci, ma vale per tutta la generazione che ha vissuto la crisi del primo dopo-guerra e poi della Repubblica di Weimar – alla «delusione del suffragio universale», senza la quale poco si intende degli anni trenta in tutti i loro aspetti. Anzi, una delusione analoga si visse nel secondo dopoguerra, attorno agli anni sessanta, quando si riaffrontò problematicamente la «crisi delle democrazie»: che sia stata cancellata dalla memoria in questi stupidissimi anni ottanta è un danno serio.

Si pensi solo alla ricostruzione che Canfora fa della discussione sulla «maggioranza» o sul consenso in Gramsci e l’ultima sua rivisitazione decente, che fu quella della discussione Bobbio-Ingrao del 1976.

Le ‘responsabilità’ di Togliatti

La seconda tesi di Canfora riguarda la responsabilità di Togliatti nelle scelte dell’Internazionale, e la pone come va posta: non soltanto cioè su quel che Togliatti poteva fare o non fare a favore di questo o quella vittima della repressione (o fece o non fece, con precisazioni opportune, come quella sul’37), ma nel dilemma reale che gli si posse: sottraendosi e aprendo il conflitto con Stalin non avrebbe perduto soltanto la vita, non avremmo avuto «quel» partito comunista della guerra e del dopoguerra. Socialisti o democristiani possono anche dire (oggi si dice di tutto) che sarebbe stato meglio non averlo? Lasciamo loro questa responsabilità.

Certo in quel tipo di partito la paternità di Togliatti è insostituibile; quando si andrà a vedere con animo schiarito dalla polemica, è mia convinzione che nessun altro, né dei vecchi né dei giovani, avrebbe avuto la forza di costruirlo tenendo chiaro in mente che non si poteva andare a un nucleo d’acciaio e a parallelismi semiclandestini senza andare a un partito con tutte le caratteristiche staliniane e nessuna delle possibile salvaguardie (la correzione più rilevante a questo proposito va fatta, a parer mio, su Secchia dopo la pubblicazione dei «Diari» e delle carte a cura di Enzo Collotti, e in anni più recenti della biografia di Miriam Mafai).

Il problema del valore del ’17 e della «edificazione del socialismo» malgrado Stalin – malgrado la concretezza storica delle sue forme, ma fu concreta anche la dimensione e il senso della «rottura», la generazione rivoluzionaria — investiva la morale, fu problema etico di tutta la vecchia guardia bolscevica e solo spiega il contegno ai processi, il fatto che, dopo il Congresso del 1934, si sia lasciata liquidare per singoli o gruppi. Essa mise, penso, sulla bilancia non solo la propria innocenza e l’altrui manipolazione, ma la sopravvivenza dell’Urss nella imminenza della guerra. Non so quanto si intenda oggi questo ordine di dilemmi; certo nessuno capirà la storia del comunismo se non li capisce.

Certo Togliatti ne derivò la certezza che quella strada non poteva essere battuta e vide nella stessa divisione del mondo e nella «condanna» dell’Italia a stare in occidente la possibilità d’un esperimento inedito: la crescita di un grande partito comunista in condizioni di democrazia e suffragio, separato dall’idea d’una avanguardia giacobina.

Un padre fondatore della democrazia

In questo senso egli fu, sostiene Canfora con ragione, davvero un padre fondatore della democrazia. Canfora ricostruisce con attenzione la sostanziale scelta di Togliatti per la democrazia e lo stato di diritto (andrebbe esaminata anche la storia interna del partito, non priva di contraddizioni interessanti ; malgrado tutto, le sole tre espulsioni dal Comitato centrale furono fatte dai suoi oggi tanto immemori seguaci, cinque anni dopo la sua morte).

Quel di cui Canfora non da ragione, perché gliene mancano gli elementi — e forse neppure ci sono, dato il pragmatismo dell’uomo — è del momento in cui Togliatti introiettò l’idea del partito comunista italiana come grande socialdemocrazia. E se mai la introiettò. Essa infatti non è strettamente consequenziale alla tematica gramsciana prima e togliattiana per cui nelle società avanzate il potere non starebbe sulla punta del fucile.

Una rivisitazione della tematica, non così volgare come sembra, delle riforme di struttura e della «rivoluzione italiana» quale si riaffacciò nei primi anni ’60 — c’è un interessante Comitato centrale sui giovani in cui egli ripropone il problema della domanda e possibilità del socialismo «ora» — aiuterebbe a capire dove e se fosse finita nell’ultimo Togliatti la tesi di «leninismo e potere», ancora ripresa al primo convegno di studi gramsciani.

La questione non è più quella della «duplicità», ma della natura della proprietà e dello Stato in un paese di capitalismo maturo.

E, se mai, fu un rivoluzionario?

Ma non è questo il punto in causa nella discussione del 1988. E’ se Togliatti fosse un «democratico» o no, e dal lavoro di Canfora esce un leader e una pratica del Pci che non ha da «render conto alla democrazia italiana», se mai viceversa. Del resto, credo che Canfora se mai gli chiederebbe conto, come già da altre parti è avvenuto, del tema opposto: se l’opera sua lasciava aperta o no una strada per un mutamento di sistema.

Fuori dalla polemica spicciola, ogni tentativo storiografico ha visto questo ordine di problemi, improvvisamente rovesciato l’anno scorso. Quel che nel volume di Canfora è singolare è la la pregnanza dei punti presi in esame con rigore e limpidezza del metodo: ne notiamo soltanto due, uno del tutto persuasivo, uno meno.

Persuasiva è la storia del patto russo-tedesco, anche per quanto riguarda, secondo le ultime fonti, l’esitazione di Stalin (una sola inesattezza riguarda la morte, e non il suicidio, di Paul Nizan il 23 maggio del 194O nella battaglia della regione di Audruick, dopo Dunquerque). Meno conclusive le ricerche su Gramsci e il Partito comunista italiano, dove si vedrà più chiaro solo quando saranno pubblicate le lettere di Tatiana Schuchta Gramsci, e, se esiste, l’archivio di Piero Sraffa. Dico se esiste perché chi l’ha conosciuto sa che egli non ne parlò mai con nessuno, salvo alcuni dirigenti del Pci ; per un massimo di riserbo e forse, come sospettai talvolta, per una ormai molto grande distanza intellettuale dal suo passaggio nel- l’Ordine Nuovo.

Questo quadro resta da illuminare, specie dopo l’uscita dal carcere e il soggiorno in clinica, e ne fanno fede le lettere – quelle sì veramente terribili – nelle quali annuncia a Giulia che se ne tornerà a Santo Lussurgiu. E’ chiaro che fin poco prima ha pensato di rientrare a Mosca, e appunto solo Sraffa o Tatiana potrebbero forse dirci a titolo postumo che cosa sapesse e pensasse di quel che in quegli ultimi anni, dal 1934 al 1937, là avveniva. Ma sarebbe stato amichevole e saggio farlo venire a Mosca nel 1936? E’ curioso come nessuno, che io sappia, se lo chieda.

Post scriptum. Anche la questione della lettera di Grieco, sulla quale a Canfora ha risposto Aldo Natoli, resta a mio avviso insoluta. Né la tesi di Canfora né quella di Natoli compaiono conclusive. Quella di Natoli urta sulla scrittura, effettivamente molto diversa, e sul contenuto: Grieco fu un uomo bizzarro e infelicissimo, ma riesce difficile a chi lo ha conosciuto pensare che scrivesse in quella saltellante e frivola maniera.

Quella di Canfora urta sul fatto che il partito comunista non avesse reagito alla sua reazione, che Tatiana non poteva non aver comunicato. Per ultimo, la reazione stessa sembra sproporzionata rispetto alla lettera — sempre che sia quella, perché se fu un falso, non è detto che non ce ne sia stata un’altra. Quella non conteneva a dire il vero materiali così incriminanti, tanto meno, come Canfora osserva, un riconoscimento che Gramsci fosse il segretario del partito.

Dov’è finito l’originale? Qual è l’originale? Se fosse nell’archivio di Gramsci a Tatiana, forse.

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