Trump è stato canaglia
Lo scellerato annuncio di Donald Trump di «non riconoscere» l’accordo sul nucleare civile promosso da Obama nel luglio 2015 non è solo propaganda sprezzante di chi deve corrispondere alle promesse […]
Lo scellerato annuncio di Donald Trump di «non riconoscere» l’accordo sul nucleare civile promosso da Obama nel luglio 2015 non è solo propaganda sprezzante di chi deve corrispondere alle promesse […]
Lo scellerato annuncio di Donald Trump di «non riconoscere» l’accordo sul nucleare civile promosso da Obama nel luglio 2015 non è solo propaganda sprezzante di chi deve corrispondere alle promesse elettorali.
In stile gangster apocalittico, con la parola «demoni» appesa sulle labbra, ha pronunciato il suo discorso più grave e irreparabile, dopo tante minacce più o meno approssimate – dalla Corea del Nord a Gerusalemme capitale d’Israele, dal Nafta al blocco di Cuba alle sanzioni al Venezuela.
È una scelta, concreta e simbolica, di campo per stravolgere gli assetti internazionali e mediorientali in particolare, con la deliberata e miope opzione del tanto peggio tanto meglio.
L’isolazionismo allo stato puro che isola però di più gli stessi Stati uniti perché, pare di capire, il mondo stavolta non ci sta, a parte gli applausi scontati che arrivano dal premier israeliano Netanyahu.
Certo, i commentatori americani insistono a dire che di una operazione di teatro si tratta, anche perché il barile viene scaricato ancora una volta sul Congresso che dovrà decidere. Ma resta devastante la «non certificazione» dell’accordo di svolta di due anni fa, tra i Paesi del gruppo 5+1 (Usa, Russia, Francia, Cina, Gran Bretagna, più Germania), l’Ue e l’Iran che comprendeva la sospensione delle sanzioni contro Tehran in cambio dell’impegno dell’Iran a limitare il suo programma, vincolandolo a stretti controlli sotto egida dell’Aiea-Onu.
Il riconoscimento di legittimità del nucleare civile iraniano – Trump arriva a dire che l’accordo aiuta Tehran «a costruirsi l’atomica più velocemente» – avviava un dialogo fino allora giudicato impossibile con il «nemico» storico, rompeva la nefasta tradizione occidentale di considerare «Stato canaglia» l’Iran che aveva subìto la strategia di dominio degli Stati uniti a partire dal 1980, quando Washington e Bush sr. decisero di fare guerra al regime degli ayatollah di Teheran per interposto Iraq di Saddam Hussein. Fu l’incipit, dimenticato, del bagno di sangue ancora in corso.
Giacché le parole di Trump, che accusano Tehran di essere «il più grande sponsor del terrorismo internazionale che per questo non può avere il nucleare», precipitano su uno scenario che vede l’Iran e i suoi alleati sciiti, a cominciare dai libanesi di Hezbollah, da tempo in armi in Siria impegnati a sconfiggere il jihadismo sunnita dell’Isis da anni sostenuto dall’Arabia saudita; un impegno riconosciuto perfino dalla Turchia del Sultano Erdogan che interviene adesso con il suo esercito a contendere a Tehran la palma della vittoria; così com’è apprezzato dall’Iraq che intanto vede la sua unità andare in frantumi. Soprattutto è riconosciuto dalla Russia, la cui entrata in scena nella guerra in Siria a fine 2015 dopo il «vertice del caminetto» alla Casa bianca tra Obama e Putin, vede come decisivo lo sforzo bellico iraniano.
Sulle macerie siriane è fallito il tentativo, riuscito in Libia con Gheddafi, di abbattere Assad, ma invece la Siria è distrutta, dopo tanto impegno a sostenere gli insorti armati rivelatisi alla fine jihadisti dell’Isis e qaedisti. Un tentativo che ha visto insieme, nel fronte degli amici della Siria, Paesi europei, la Turchia, gli Usa e l’immancabile petromonarchia dell’Arabia saudita.
Eccolo l’alleato fedele del caos organizzato di Donald Trump. Che ora torna sul sentiero criminale che ha tracciato lo scorso maggio, quando è andato in visita a Riyadh, proprio nelle stesse ore in cui a Tehran proclamavano il moderato Rohani vincitore delle elezioni presidenziali, accolto da uno schieramento nutrito di Paesi sunniti, per incitarli a lottare contro «il terrorismo sciita», firmando un contratto per 110 miliardi di armi Usa da destinare al petromonarca Salman, con tanto di aerei da guerra, navi e bombe di precisione e un sofisticato sistema radar anti-missile.
Ma il mondo è cambiato, nonostante la guerra resti ancora la dominante: la sua scia di sangue e disperazione ci è ritornata in casa. Tranne Israele, il cui governo di estrema destra si regge sulla promessa di un nuovo conflitto nell’area contro Hezbollah e Iran, e l’Arabia saudita nessuno – l’Ue dice no – è disposto a tornare a nuove sanzioni contro il «Grande Satana», l’«Asse del Male», a stracciare davvero quell’accordo, anche perché fin qui è stato più che rispettato, come ha riconosciuto perfino il Pentagono.
Unico risultato sarà, forse, rinfocolare l’ala dura del regime iraniano. Forse.
Perché a giudicare dai commenti, le parole di Trump che annunciano sanzioni ai pasdaran, ricompattano a Tehran l’intera società e le generazioni. Anche la società iraniana infatti è cambiata e l’accordo del 2015, ricordiamo salutato in piazza da manifestazioni di giovani, è stata una svolta storica nel diritto dell’Iran ad esistere, in Medio Oriente e nel mondo.
E stavolta è chiaro che la canaglia è Trump.
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