Trump, il ruggito del coniglio nella guerra dei dazi
Siamo in guerra? Donald Trump vuole scatenare conflitti commerciali con mezzo mondo, umiliare l’Unione Europea, ferire a morte le nostre economie? Forse sì, ma per adesso le indiscrezioni del Wall Street […]
Siamo in guerra? Donald Trump vuole scatenare conflitti commerciali con mezzo mondo, umiliare l’Unione Europea, ferire a morte le nostre economie? Forse sì, ma per adesso le indiscrezioni del Wall Street […]
Siamo in guerra? Donald Trump vuole scatenare conflitti commerciali con mezzo mondo, umiliare l’Unione Europea, ferire a morte le nostre economie? Forse sì, ma per adesso le indiscrezioni del Wall Street Journal sui dazi del 100% che dovrebbero colpire alcuni prodotti italiani e francesi somigliano più al celebre film del 1959 Il ruggito del topo che all’invasione della Polonia del 1939. Un tweet del giornale, l’altroieri, annunciava che l’amministrazione Trump sta valutando di penalizzare fortemente alcuni beni di consumo che esportiamo negli Stati Uniti: la Vespa, il formaggio francese Roquefort, le acque minerali San Pellegrino e Perrier.
La giustificazione sarebbe l‘ormai antica guerra commerciale attorno alla carne agli ormoni, un contenzioso di vecchia data tra Usa e Ue, che risale a quasi vent’anni fa. Nel 2009 era stato negoziato un accordo parziale, in base al quale l’Unione Europea aveva accettato di aprire il suo mercato alla carne americana, purché non trattata con gli ormoni, considerati nocivi per i consumatori.
Naturalmente ai produttori americani non bastava e quindi la Commissione Ue aveva proposto di risolvere la disputa nell’ambito dell’accordo commerciale tra le due sponde dell’Atlantico, il Ttip (Transatlantic Trade and Investment Partnership), fortunatamente naufragato dopo l’elezione di Trump. Secondo i dati del dipartimento del Commercio Usa, la carne è un settore economico importante: le esportazioni potenzialmente valgono 6 miliardi di dollari l’anno e quindi il governo americano potrebbe imporre dazi su merci europee di valore equivalente. Per Francia e Italia l’agroalimentare costituisce una voce importante delle esportazioni verso l’America, basti pensare a prodotti di qualità come lo champagne, il prosecco, il parmigiano o il foie gras.
Solo i cinefili, in realtà, ricordano che il Il ruggito del topo, tratto da un romanzo dello scrittore irlandese Leonard Wibberley (ripubblicato nel 2016 da Castelvecchi) aveva una trama che partiva proprio da un conflitto commerciale: Peter Sellers, nelle vesti del primo ministro del ducato di Grand Fenwick, propone una rappresaglia contro gli Stati uniti a causa della sleale concorrenza che i vini californiani fanno al pregiato Pinot nero delle cantine del minuscolo stato alpino, situato al confine tra Francia e Svizzera. Lo sbarco a New York di un’armata Brancaleone equipaggiata di archi e frecce crea una serie di situazioni comiche a cascata, con trionfo finale della vecchia Europa.
Naturalmente è presto per capire se le minacce di Trump saranno realmente messe in opera e se si tratterà di rappresaglie limitate o di una strategia globale, che quindi dovrebbe avere come primo obiettivo la Cina, un partner commerciale ben più importante dell’Europa. In campagna elettorale Trump se l’era presa in particolare con le merci cinesi ma è probabile che i suoi consiglieri gli abbiano spiegato che un braccio di ferro con Pechino danneggerebbe prima di tutto i consumatori americani, oltre a provocare un crack della Borsa di Wall Street (che questa settimana ha avuto una battuta d’arresto nella corsa al rialzo degli ultimi tre mesi).
Quel che è certo è che la Casa bianca ha un disperato bisogno di mostrare che sta facendo qualcosa di concreto perché i risultati che può mostrare dopo 70 giorni dall’insediamento sono magri: la promessa di cancellare “il primo giorno” l’odiata riforma sanitaria di Obama è affondata miseramente la settimana scorsa nel caos del partito repubblicano, diviso in almeno tre fazioni e incapace di trovare un accordo al proprio interno su un testo che proponesse un modello alternativo. Il bando all’ingresso di tutti i mussulmani, da qualunque parte del mondo provenissero, è stato bloccato dalle corti federali per incostituzionalità, sia nella prima che nella seconda versione, che pure limitava ai cittadini di soli sei paesi il divieto di ingresso negli Stati Uniti. Il muro al confine con il Messico è, ovviamente, di là da venire.
L’unica area in cui l’amministrazione sembra poter agire con efficacia è quella dell’ambiente, dove la maggior parte delle iniziative e delle regolamentazioni emanate da Obama sono in via di cancellazione. Nonostante i tweet roboanti di Trump, però, questo non riporterà i posti di lavoro promessi ai minatori del Kentucky o del West Virginia: nelle miniere, ormai, a scavare sono le macchine, non gli uomini.
Le indiscrezioni dello Wall Street Journal sembrano quindi un ballon d’essai, un tentativo di sondare gli umori del mondo economico prima di decidere cosa fare, più che una strategia ben delineata. Non a caso i tweet del presidente di questa settimana prendevano di mira i democratici, il New York Times e i repubblicani non allineati, tre nemici interni, ma non accennavano minimamente alla Cina, all’Europa, o ai trattati commerciali.
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