Alle urne alle urne
La politica non è il perseguimento dei propri interessi. Ma idee, progetti, obiettivi. In primo luogo quelli democratici che si realizzano anche attraverso la partecipazione al voto. Se chi governa […]
La politica non è il perseguimento dei propri interessi. Ma idee, progetti, obiettivi. In primo luogo quelli democratici che si realizzano anche attraverso la partecipazione al voto. Se chi governa […]
La politica non è il perseguimento dei propri interessi. Ma idee, progetti, obiettivi. In primo luogo quelli democratici che si realizzano anche attraverso la partecipazione al voto. Se chi governa invita i cittadini a non andare a votare, ferisce la radice di un principio democratico (tra l’altro ci sono leggi che lo vieterebbero). Senza pensare alle conseguenze di una scelta che potrebbe rivelarsi autolesionista. Perché l’arma del non voto prima o poi si ritorce contro chi l’ha evocata.
Sarebbe stato molto semplice trovare un accordo tra governo e regioni sull’ultimo dei sei quesiti proposti dalle nove regioni italiane sulle scelte in materia di energia e ambiente. Mettere un termine ai contratti delle società petrolifere, come avviene in Europa era ragionevole per tutti (parliamo di stipule ultratrentennali e di successive, possibili proroghe). Ma il gruppo renziano di palazzo Chigi ha detto no. Probabilmente nella previsione di un flop di affluenza, alimentando e organizzando la propaganda fuorilegge (l’astensionismo di governo) sostenuta da illustri sponsor come l’ex presidente della repubblica Napolitano. Un referendum da far fallire e da giocare come apripista della grande volata d’autunno sulla riforma costituzionale. Una furbata in stile renziano, ma non sempre e non tutta la politica è piegata a instrumentum regni.
Il comportamento del partito democratico (o della sua maggioranza), e del segretario Renzi, è paradossale. Oggi vorrebbe vedere gli italiani lontani dalle urne, mentre in autunno dovrà buttarsi in una forsennata campagna referendaria per chiedere ai cittadini di sostenere, attraverso il voto, la riforma costituzionale appena approvata alla Camera. La contraddizione è evidente, e peserà nei rapporti con la minoranza Pd, nei rapporti con gli altri partiti, in quelli con la comunità nazionale.
Paradossalmente, prima del merito, ciò che emerge con forza mettendo in luce i limiti del giovane Renzi, è il metodo. Che evidenzia una considerazione della politica strumentale e bullesca («si perdono 11 mila posti di lavoro», «il referendum è una bufala»). Si perseguono una tattica e una strategia solo se funzionali al proprio tornaconto (al netto di traffici poco commendevoli che la magistratura dovrà accertare).
Oltretutto non si valutano le conseguenze di questa decisione nei rapporti del Pd con i propri elettori e simpatizzanti. I quali periodicamente vengono chiamati a votare per le primarie, alle quali rispondono con una crescente disaffezione. E quindi con uno svuotamento progressivo del significato di questa iniziativa di democrazia diretta. Forse l’obiettivo finale è proprio quello di renderle inutili, lasciando le decisioni che contano agli apparati, alle segreterie, ai gruppi di potere.
Ma c’è anche qualcosa di bizzarro nel referendum “trivellaro”. Perché la consultazione elettorale non è stata promossa dalla casa madre dei radicali di Pannella, né da altri attraverso la tradizionale raccolta delle firme: è stato voluto da nove regioni, in maggioranza a guida Pd. È inverosimile pensare che improvvisamente i presidenti e le giunte di queste regioni siano diventati ambientalisti. Però hanno il polso dei rapporti con il territorio, sottovalutare questo aspetto risponde perfettamente alle scelte autarchiche e masochiste di questo governo.
E tuttavia, a esser sinceri, un referendum che mette insieme Sel e la Lega non ci entusiasma.
Una è per l’ecologia, la sinistra e la libertà, l’altra pensa esclusivamente a fare battaglia politica contro il governo, usando ogni argomento per chiedere le dimissioni di Renzi.
Ci saremmo aspettati una partecipazione vera, forte, mobilitante dei 5Stelle, che invece si sono fermati allo scontro politico tout court, attaccando i ministri di Renzi per gli affari, veri e presunti, che girano intorno al petrolio italiano. Hanno perso un’occasione culturale e sociale, arroccandosi in una guerra di Palazzo che sicuramente piace a quei milioni di indignati che vorrebbero mettere al rogo tutta la classe politica.
Non so come andrà a finire oggi. Chi andrà a votare per un referendum di cui si sa poco, e avendo davanti esempi di tutti quelli vinti e traditi?
L’augurio però è che il voto serva se non altro a trivellare le certezze delle persone che usano gli strumenti democratici come un’arma di lotta politica, anziché come collante della vita politica, sociale, culturale del nostro paese.
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