Europa

Come ci dimentichiamo dei curdi

Le proteste della comunità kurda a Parigi dopo l'ultimo attentato, foto ApLe proteste della comunità kurda a Parigi dopo l'ultimo attentato – Lewis Joly /Ap

Comunità curda in piazza a Parigi Un tempo i curdi che a Kobane resistevano al Califfato erano i nostri eroi. Allora la bandiera nera dell’Isis sventolava a 400 metri dalla città. Resistere resistono ancora contro l’Isis […]

Pubblicato quasi 2 anni faEdizione del 24 dicembre 2022

Un tempo i curdi che a Kobane resistevano al Califfato erano i nostri eroi. Allora la bandiera nera dell’Isis sventolava a 400 metri dalla città. Resistere resistono ancora contro l’Isis che è tutt’altro che sconfitto, ma ora pure sotto le bombe dei turchi nel Rojava, ai confini tra Siria e Turchia.

Ce li siamo dimenticati presto i curdi, visto che pur di fare entrare Svezia e Finlandia nella Nato siamo disposti a sacrificarli ai ricatti del Sultano Erdogan.

La strage dei curdi al centro culturale di Parigi non è soltanto il gesto xenofobo di un estremista, è il frutto avvelenato di un clima generale: “Per noi si tratta di un attacco terrorista, si inserisce in una escalation di tensione alimentata scientemente dalla Turchia”, è stata la dichiarazione del portavoce Agit Polat puntualmente riportata nella corrispondenza di Anna Maria Merlo da Parigi.

Dove, come in altre città francesi, per il secondo giorno consecutivo la comunità curda è scesa in piazza per protestare, con scontri tra i manifestanti, che portavano i ritratti dei tre militanti assassinati, e la polizia in pieno centro e forti momenti di tensione.

Così come non fu certo un caso l’uccisione nel gennaio 2013, sempre a Parigi, di tre donne del Pkk: freddate con un colpo alla nuca. Un’esecuzione.

Oggi è anche peggio di allora.

Basta vedere le estradizioni dei curdi da Svezia e Finlandia – nonostante l’alta Corte svedese abbia bloccato un solo “trasferimento”. Gli accordi stipulati tra i tre paesi durante il vertice Nato di Madrid, infatti prevedono, in cambio del placet di Ankara all’ingresso dei due paesi nella Nato, la consegna di una lunga lista di persone appartenenti all’opposizione curda e turca al regime di Ankara attualmente residenti in Finlandia e Svezia oltre che l’impegno a cambiare, radicalmente, l’approccio di accoglienza e di solidarietà verso la causa curda manifestato storicamente dai governi di Stoccolma.

Erdogan ha approfittato del ruolo acquisito con l’invasione russa dell’Ucraina per mettere il coltello alla gola di svedesi e finlandesi. Che in parte si sono rimangiati la loro decennale posizione di critica e accusa nei confronti dell’autocrate turco di condurre una guerra spietata non solo contro i curdi ma contro ogni opposizione interna.

Sì perché non ci sono solo i curdi ma la questione di un intero Paese, la Turchia, che il prossimo anno va a elezioni calpestando tutti i criteri democratici: il sindaco di Istanbul, Ekrem Imamoglu, membro del partito repubblicano Chp e uno dei più popolari oppositori a Erdogan, è stato da poco condannato a due anni e sette mesi di carcere per aver insultato alcuni funzionari pubblici nel discorso che fece nel 2019 dopo aver vinto le elezioni comunali.

Se la condanna sarà confermata, Imamoglu verrà rimosso dalla carica di sindaco e non potrà candidarsi. E aggiungiamo che la leadership del partito curdo Hdp resta in carcere, sottoposta a una repressione sempre più intensa dopo l’attentato del 14 novembre nel centro di Istanbul a Istiklal Caddesi (6 morti) attribuito alla guerriglia al Pkk, per altro senza prove convincenti visto che l’attentatrice veniva dalla zona siriana controllata dalla Turchia e dalle milizie filo-Ankara.

La Nato ha in casa il suo Putin ma fa finta di niente perché oggi, come ieri, gli torna utile anche quando vìola ogni principio delle alleanze occidentali. Come denunciava un recente appello del coordinamento dei curdi ospitato dal manifesto. Erdogan non soltanto continua i raid aerei sul Rojava, la zona autonoma curda dove è in corso una esperienza politica e sociale senza eguali nel cuore del Medio Oriente, ma si prepara anche a un attacco di terra come fece già nel 2019.

In Siria e nel Nord dell’Iraq la Turchia in questo ultimo anno ha lanciato quattromila attacchi costringendo le popolazioni curde ad abbandonare centinaia di villaggi.

Con che cosa la Turchia fa la guerra ai curdi? Ma con le nostre armi naturalmente.

Dopo l’invasione del Rojava nel 2019 (centinaia di morti e 300mila profughi), l’Europa e l’Italia avevano promesso un embargo sulle vendite di armi ad Ankara. Non solo non se ne è fatto nulla ma la Turchia, il secondo esercito Nato con 400mila uomini, è stata da noi ulteriormente rafforzata.

Dopo avere acquistato il sistema anti-missile S-400 da Mosca, la Turchia ha accelerato le forniture belliche anche dall’Europa.

Nel quinquennio 2016-21 l’Italia ha fornito ad Ankara circa un miliardo di euro di armamenti, tra cui 92 elicotteri da combattimento assemblati dalla Turkish aerospace industries su licenza Agusta/Westland.

Le armi italiane ed europee sono in prima fila nel colpire i curdi del Rojava che avevamo esaltato come gli alfieri dell’Occidente e i combattenti per la libertà.

E come se non bastasse, i curdi sono entrati nel mirino anche del regime iraniano quando è stata uccisa Masha Amini originaria del Kurdistan iraniano (Jinha il suo nome curdo) la cui morte in settembre è stato il fattore scatenante delle proteste popolari contro il regime.

L’obiettivo di Teheran sono i militanti dei partiti curdi di opposizione all’interno ma anche di base oltre i confini con l’Iraq. Si vede che la parola curda e persiana “azadì”, libertà, ovunque sia pronunciata, fa ancora troppa paura ai regimi di Turchia e Iran ma anche a noi, gli ipocriti esportatori di armi e democrazia.

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