Con chi sta la sindaca di Roma
Forse l’Italia avrà un nuovo governo. Nuovo perché la forza più importante è il Movimento 5Stelle, che dopo anni di opposizione è riuscito a diventare il primo partito del paese, […]
Forse l’Italia avrà un nuovo governo. Nuovo perché la forza più importante è il Movimento 5Stelle, che dopo anni di opposizione è riuscito a diventare il primo partito del paese, […]
Forse l’Italia avrà un nuovo governo. Nuovo perché la forza più importante è il Movimento 5Stelle, che dopo anni di opposizione è riuscito a diventare il primo partito del paese, entrando quindi a buon diritto a palazzo Chigi. Nuovo perché rompe con la politica degli ultimi anni e c’è del nuovo anche nell’immagine anagrafica dei vincenti (come d’altra parte fu con Renzi). Il governo pentastellato si presenta dunque innovativo, e su diversi altri aspetti. Eppure è al tempo stesso vecchio. E malato. Sia culturalmente che politicamente.
Quando il governo sarà fatto e al nome del presidente del consiglio si aggiungeranno quelli dei ministri, torneremo sul giudizio generale. Oggi invece c’è da discutere di una questione decisa dalla maggioranza pentastellata del consiglio comunale di Roma. Potrebbe essere un pessimo esempio di quel che ci si deve aspettare dalle politiche sociali dei novatori del sistema. Stiamo parlando della Casa internazionale delle donne, di via della Lungara, sulla quale pende la scure del «debito» e dello sfratto per morosità.
Nonostante le rassicurazioni dell’ultim’ora della sindaca, che nega di voler procedere con le maniere forti, in verità, con linguaggio burocratese, attenta a non pronunciare mai la parola «femminismo», Raggi parla di un bando confermando la stessa politica usata in altre occasioni, con altri centri culturali sloggiati dalle storiche sedi.
Ovvero la Casa «non sarà esclusa», bontà sua, dai progetti del Comune sulle donne.
Sicuramente tanti conoscono la storia della Casa, rinata sulle ceneri del “mitico”, femminile e femminista, Governo Vecchio (oggi cadente letteralmente a pezzi). Da alcuni decenni la struttura di via della Lungara è diventata punto di riferimento per una serie di attività che difficilmente è possibile riscontrare altrove. Dall’aiuto assistenziale, al sostegno alle donne abbandonate e maltrattate, ai dibattiti, alla poderosa biblioteca, ai concerti, alla ristorazione, agli spettacoli, alle mostre… Al centro di tutto c’è sempre la donna, che non è l’altra metà del cielo ma dell’umanità.
L’esistenza della Casa non ha importanza unicamente per la vita quotidiana delle donne (non solo italiane, anche migranti), ma ha un grande valore simbolico oltre che storico.
Senza dubbio non è un luogo di affari, economicamente non è redditizio. Si può sfrattare una storia, una realtà solo perché non è in regola con l’affitto? Non si può. E riesce difficile comprendere perché un comune come Roma, capitale del paese, pur avendo a disposizione un vasto patrimonio immobiliare, non voglia farsi carico di un centro culturale che rappresenta una risorsa, senza alternative, per la collettività. Oltretutto mentre i pentastellati chiedono una ridiscussione del nostro debito pubblico, a Roma vestono i panni dei burocrati di Bruxelles.
La mobilitazione di ieri, di questi giorni a difesa della casa, fa leva su diversi aspetti politici, economici, sociali. Più uno: l’identità di genere della sindaca Raggi. Una donna – soprattutto se di potere – dovrebbe essere solidale con le altre. Per la sindaca sarebbe un gesto di grande e generale significato e darebbe un messaggio diverso rispetto a quello offerto dal governo in formazione, nel quale al momento figurerebbero come mosche bianche un paio di ministre. In tal caso avrebbe prevalso l’atteggiamento misogino alla Salvini su quello mite di Di Maio che, bisogna riconoscerglielo, ha portato in parlamento la più alta percentuale di deputate e senatrici (come numerose sono le assessore capitoline). Anche per questo la decisione del comune di Roma su via della Lungara non può essere ridotta a un affitto non pagato.
Cara sindaca Raggi, la Casa delle donne non è una questione di bilancio. E in nome della «trasparenza» e del «non guardare in faccia a nessuno», si corre il rischio di diventare ciechi.
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