Il potere di contagio della guerra e la verità della memoria
Opinioni Stiamo con gli aggrediti e i più deboli. Per ridurre le sofferenze dei civili e per la fine del conflitto. Mandare armi dove ce ne sono già troppe non serve né all’uno né all’altro scopo
Opinioni Stiamo con gli aggrediti e i più deboli. Per ridurre le sofferenze dei civili e per la fine del conflitto. Mandare armi dove ce ne sono già troppe non serve né all’uno né all’altro scopo
La guerra contiene in sé l’infinita potenza del negativo. Con un altrettanto infinito potere di contagio. Dovremmo saperlo, ma lo dimentichiamo sempre: non si limita a distruggere vite e mondi. Corrompe e contamina occupando le menti e le anime con la propria logica perversa. Ha le caratteristiche che Gustav Jung attribuiva all’archetipo germanico di Wotan – il Capo della caccia e l’Ospite Furioso che irrompe della casa dell’Io e lo stravolge -, definendo “questo fenomeno generale come Ergriffenheit, uno stato di rapimento o possessione”. Resisterle è difficile.
Forse solo chi l’ha conosciuta davvero, ne ha provato l’orrore “col corpo” – chi ha visto il volto di Medusa, direbbe Primo Levi -, riesce a sottrarsi fino in fondo alla cattura (a non lasciarsi “pietrificare dentro”). Probabilmente per questo, nel frastuono mediatico in cui siamo precipitati dal 24 di febbraio, con l’aggressione russa all’Ucraina, i pochi capaci di parlarne con un barlume di “coscienza di causa” sono quei militari (penso al generale Fabio Mini, ad esempio) che sono stati effettivamente in uno “scacchiere di guerra” a differenza di troppi professionisti dell’informazione o della politica.
Personalmente questa lezione l’ho dovuta imparare da mio padre Nuto, che l’essenza della guerra dovette “viverla” nel punto più terribile della ritirata di Russia, nel gennaio del ’43, nella piana di Nicolaevka, in quella che chiamerà la “notte dei pazzi”, quando – scriverà – “capì tutto”: la vergogna del fascismo, lo sfacelo dell’esercito, il tradimento del Re, la lontananza di una patria indifferente e corrotta, guidata dai retori dell’”armiamoci e partite”. Soprattutto l’orrore irredimibile della Guerra.
La verità indicibile che gli avevano rivelato i suoi alpini, montanari costretti a diventare soldati, e cioè che in guerra, in ogni guerra, è sempre la povera gente a pagare il prezzo più caro. Sono loro, e non quelli che le guerre le decidono e le comandano (o magari anche solo le commentano), a subirne sofferenze e conseguenze.
Scrivo questo perché quella memoria famigliare sepolta nella mia infanzia col suo carico di tragedia mai veramente superata, mi è ritornata fuori d’improvviso all’esplodere di questa nuova guerra, combattuta negli stessi luoghi di quella di allora, con gli stessi nomi che ritornano. Un’emozione nuova su un materiale emotivo vecchio, una lacerazione in più rispetto a quelle che la cronaca quotidiana infligge a tutti oggi. E mi chiedo come far tesoro della lezione di allora per affrontare i dilemmi di oggi. Come tentare quantomeno di evitare che gli errori e le sofferenze di allora si sommino con (gli stessi?) errori e sicuramente le stesse sofferenze di oggi.
Credo che il primo pensiero, per chi intenda resistere alla possessione di Wotan, sia l’obbligo morale, civile e politico di fare il possibile (e anche l’impossibile) per impedire che la guerra scoppi (e su questo interroghiamoci se davvero Europa e Occidente sono innocenti). Ma soprattutto, e a maggior ragione, una volta sciaguratamente scoppiata, per impedire che si estenda e incrudelisca.
Non si tratta qui di decidere “da che parte stare” tra aggrediti e aggressori, tra più deboli e più forti: si sta con gli aggrediti e i più deboli, con buona pace dei manifestanti fiorentini che denunciano il pacifismo “equidistante”. Ma di scegliere, consapevolmente, “come stare”. Con quali forme e quali mezzi, al fine di ridurre al minimo le sofferenze della popolazione e di avvicinare il più possibile la conclusione del conflitto. Mandare armi là dove ce ne sono già troppe (e ne vediamo purtroppo i tragici effetti) non serve né all’uno né all’altro scopo.
Significa gettare benzina su un fuoco che occorrerebbe invece spegnere prima possibile; alzare un livello di scontro che ci si dovrebbe sforzare di abbassare. Rischiare di allargare i confini di un conflitto che si dovrebbe invece limitare, finendo per coinvolgervi gli stessi che dovrebbero svolgere il ruolo di mediatori. Confondere un’onorevole mediazione con la “perdita dell’onore” è pessima retorica, foriera di rovine.
Ha ragione Donatella Di Cesare quando ci invita a scegliere se vogliamo “aiutare il popolo ucraino aggredito” o “fare la guerra a Putin”, perché le due cose sono in contraddizione. La seconda opzione (combattere contro un nemico usando, peraltro, i corpi degli altri) significa, come è stato ferocemente detto “rendere lo scontro sempre più sanguinoso” fino al rischio estremo. La prima implicherebbe compiere ogni possibile sforzo per favorire un negoziato accettabile per entrambe le parti in una prospettiva di pace onorevole. Personalmente non ho dubbi.
Infine un’ultima implorazione: per favore non si usi il paragone con i “partigiani” per sostenere la linea dell’”armiamoli a casa loro”, fuori luogo e fuori contesto come ha ben messo in chiaro Alessandro Portelli su queste pagine, utile solo a sopire i sensi di colpa per la propria passata e presente impotenza.
Allora, purtroppo, la guerra mondiale era da tempo scoppiata, la lotta partigiana appariva una scelta difficile ma non disperata, e soprattutto il grosso degli armamenti proveniva dallo scioglimento del regio esercito o veniva conquistato con colpi di mano.L’uso propagandistico della storia, giocato sulla cancellazione delle specificità di contesto e sull’eticizzazione simbolica di fatti tra loro diversi ricondotti a un unico, semplificato, effetto emotivo, non ci aiuta certo a resistere alla vertigine dalla guerra. Anzi.
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