Editoriale

La sinistra impari la lezione

La sinistra impari la lezione

C’è una radicale, profonda iniquità in questa nuova fotografia elettorale del Paese: è la legge con la quale sono stati chiamati al voto oltre 50 milioni di italiani. È utile ripeterlo finché non ci sarà modo di cambiarla

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 27 settembre 2022

C’è una radicale, profonda iniquità in questa nuova fotografia elettorale del Paese: è la legge con la quale sono stati chiamati al voto oltre 50 milioni di italiani. È utile ripeterlo finché non ci sarà modo di cambiarla. Intanto perché è sfacciatamente antidemocratica visto che cancella dal panorama istituzionale chi non raggiunge il 3 per cento dei suffragi, e visto che premia, oltre ogni giusta misura, chi riesce ad ottenere anche un solo consenso in più dell’avversario. Uno specchio deformante che ingigantisce o assottiglia le formazioni politiche senza curarsi delle loro reali dimensioni.

Per di più, ironia della sorte, va detto che proprio chi l’ha voluta, anzi imposta, il Partito democratico (all’epoca renziano), è stato severamente e meritatamente punito per non averla neppure saputa usare contro la vittoria annunciata della destra.

Tuttavia sarebbe riduttivo pensare di trovarci semplicemente di fronte ad un errore tattico, perché, al contrario, la crisi del Pd è figlia di pesante miopia politica, frutto della stupefacente sopravalutazione, fino all’identificazione, con il “sistema Draghi”, fino a scambiare il prestigio internazionale del capo del governo con l’identificazione programmatica tout court del partito.

Di conseguenza, il muro anti 5Stelle, lungi dal penalizzarli per lesa maestà draghiana, non solo li ha premiati ma ha regalato all’Italia la svolta storica di una larga maggioranza di estrema destra, spianando così la strada verso il potere a un avversario molto pericoloso sul piano dei diritti, delle libertà personali, dello schieramento europeo. Eppure Letta ieri, nello sprofondo del day after, presentandosi al rendiconto con gli elettori, ha rivendica questo perentorio vade retro verso i 5S, non ha fatto cenno all’intenzione di dimettersi subito, annunciando che al prossimo congresso del Pd, fissato a marzo, non si ricandiderà come segretario, per lasciare spazio ai più giovani. C’è da chiedersi perché aspettare sei mesi di fronte ad un cambio della guardia annunciato.

In ogni caso “dimissioni” è una parola sconosciuta anche per Salvini, l’altro perdente del 25 Settembre, apparso in tv come se il crollo leghista non lo riguardasse, anzi presentandolo come un generoso tributo pagato al governo di unità nazionale. Un sacrificio del quale sembra voler essere ricompensato con qualche ministero pesante. In realtà Salvini ora è il capo traballante di un partito prosciugato, persino umiliato da Meloni, (Fratelli d’Italia ha clamorosamente doppiato la Lega nelle sue roccaforti regionali, dal Veneto, alla Lombardia).

Letta e Salvini non sono certo i soli leader azzoppati. Questo spartiacque elettorale mette anche altre leadership di fronte alle rispettive responsabilità. Come quelle che navigano nel vasto, e non popoloso, mare della sinistra non tradizionale. Un arcipelago verso il quale le urne sono state più che impietose. Come nel caso di Unione Popolare, guidata da Luigi De Magistris, e composta da Rifondazione Comunista e Potere al Popolo, che ha raccolto appena l’1,5 per cento dei consensi: mancando il quorum per entrare in Parlamento.

A che serve presentarsi, anche in gruppo, quando non si riesce ad avere neppure la metà dei voti necessari per eleggere un senatore? Forse in questi casi, anziché ridurre il voto ad una conta, sarebbe più importante l’esclusivo impegno politico nel territorio, evitando di puntare ad una improbabile presenza nelle istituzioni.

Questo flop è un risultato negativo soprattutto per l’ex sindaco di Napoli. Forse indotto a sperare in un esito diverso dopo il successo raccolto nelle elezioni regionali in Calabria, senza considerare che nella competizione nazionale non bastano i successi personali per ottenere una buona risposta dalle urne. Per non parlare di Italia Sovrana, di Rizzo e Ingroia, un’ammucchiata poco comprensibile e respinta al mittente dagli elettori. Sta di fatto che queste due formazioni hanno disperso oltre 700 mila voti. Di sinistra.

Certamente meno demoralizzante, ma tutt’altro che entusiasmante, è il 3,5 per cento conquistato dal tandem Sinistra Italiana-Verdi. Sappiamo che avevano messo l’asticella del successo oltre il 5 per cento. Senza riuscirci. E c’è da chiedersi perché i voti in fuga dal Pd non siano andati a questa recente alleanza che, almeno potenzialmente, potrebbe avere più seguito grazie alla sua vocazione sociale e ambientalista. Forse aveva, ha, bisogno di più tempo per raggiungere la visibilità necessaria per crescere.

Comunque l’impressione generale è che le formazioni a sinistra del Pd, non siano in grado di conquistare un ampio seguito tra le generazioni più giovani, nonostante il bacino nel quale pescare dovrebbe essere proprio il mondo giovanile. Ma per farlo, così come per altre forze tradizionali, serve un nuovo linguaggio, nuovi riferimenti mediatici. E anche gruppi dirigenti, meno legati alla storia della sinistra del secolo scorso.

È del tutto comprensibile il desiderio di essere presenti nelle istituzioni, tuttavia, da adesso in avanti, è forse più importante concentrarsi sulla battaglia nel Paese. A fianco dei lavoratori, dei non garantiti, di chi è senza diritti o di chi li ha duramente conquistati (come l’aborto per le donne) e rischia di vederseli cancellare dalle nuove ancelle del buon costume. È in questo impegno sociale che la nostra sinistra può ritrovare la spinta necessaria alla costruzione di un’opposizione, forte e duratura.

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