L’antifascismo è una battaglia che va fatta
La cosa triste è che alla fine della sua lunga vita Erich Priebke se ne è andato senza avere capito niente. Quando è arrivato in Italia, estradato dall’Argentina, le sue […]
La cosa triste è che alla fine della sua lunga vita Erich Priebke se ne è andato senza avere capito niente. Quando è arrivato in Italia, estradato dall’Argentina, le sue […]
La cosa triste è che alla fine della sua lunga vita Erich Priebke se ne è andato senza avere capito niente. Quando è arrivato in Italia, estradato dall’Argentina, le sue prime interviste facevano accapponare la pelle. Ripeteva che non aveva fatto altro che il suo dovere di soldato che obbedisce agli ordini, infilava a malapena qualche parola di circostanza sulle vittime e le loro famiglie, ma era chiaro che non sentiva niente.
I suoi manipolatori e gestori (anche qui, come in guerra, Priebke è stato fino alla fine strumento connivente di strategie altrui) si accorsero subito che ogni volta che parlava si faceva danno, e da quel momento in poi lo lasciarono parlare solo con interlocutori consenzienti (per esempio, Indro Montanelli). Quando provai io a intervistarlo per il libro che stavo facendo sulle Fosse Ardeatine, i suoi avvocati in un primo momento dissero di sì (avevo «buone» referenze), poi si informarono e rinviarono l’incontro di settimana in settimana per più di un anno finché ci rinunciai.
Per tutto il tempo del processo, lui e il suo camerata Hass ebbero l’aria spaesata di chi non capisce perché ce l’hanno tanto con loro. E così è rimasto fino alla fine. Ebbe persino il coraggio di fare causa per diffamazione e chiedere un risarcimento milionario a Rosetta Stame, figlia di una delle sue vittime, che aveva «offeso il suo onore» chiamandolo torturatore.
Le Fosse Ardeatine restano una ferita aperta finché esistono in Italia, e nel resto d’Europa, gruppi certo minoritari ma comunque preoccupanti che si richiamano al nazismo e alla sua ideologia, per i quali Erich Priebke era un’icona vivente. Il suo processo era apparso come l’ultima occasione per cercare, con molto ritardo, di fare un minimo di giustizia. Il suo capo, Herbert Kappler, era morto da libero cittadino, lasciato andare con la connivenza delle autorità italiane; il tribunale militare aveva lasciato andare gli altri massacratori con la scusa che avevano obbedito agli ordini; e l’«armadio della vergogna» col suo carico di violenza era ancora sepolto nei sotterranei di qualche ministero. Ma anche quel processo, e adesso anche la scomparsa di Erich Priebke, non cancellano il lutto, non chiudono il caso, non mettono fine alla domanda di giustizia e di verità, se non sul piano processuale, su quello storico. La battaglia per la memoria è ancora tutta da combattere.
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