Il commento della settimana Laura Pennacchi | Generato dalla guerra in Ucraina, il ridimensionamento attuale della ripresa economica avviatasi a livello globale nel 2021, ai primi segni di allentamento della pressione del Covid, ha implicazioni profonde. Quantità e qualità del lavoro, cioè “piena e buona occupazione”, si ripropongono come assi dirimenti, a fronte di minore numero di ore lavorate, part time involontario zavorrante la condizione femminile, crescita del tempo determinato e del lavoro somministrato, calo dell’apprendistato, criticità sempre maggiori per giovani e donne.
Invece, Stati già molto provati per sostenere durante l’epidemia l’economia e la società dirottano ora gran parte delle loro risorse verso gli armamenti e gli sforzi bellici, la precarietà e le difficoltà occupazionali si accrescono, i servizi sociali vengono ristretti.
La povertà torna ad aumentare, l’esclusione sociale si incrudelisce, si allargano le disuguaglianze, si rafforzano le mafie, la corruzione, la zona grigia intorno alla criminalità organizzata. Ma vengono anche distrutti interi ecosistemi, aumentano le ingiustizie ecologiche e ambientali, ai danni, ancora una volta, dei ceti sociali più fragili e disagiati.
Quest’ultimo è, anzi, uno dei terreni su cui più si fanno sentire le conseguenze della guerra, la quale rischia di ritardare se non di interrompere la transizione “verde”, visto che si parla di “ecologia di guerra”, e anche quella “digitale”, vista la crescente militarizzazione, per esempio, dell’intelligenza artificiale.
Dietro tutto ciò sono all’opera forze profonde. Al centro della contesa c’è l’energia che non è mai stata così intrecciata alla geopolitica. Le tecnologie sono l’altro fondamentale campo della competizione e dei conflitti: microchip sempre più piccoli, batterie per la mobilità elettrica e per l’accumulo di energia rinnovabile, nuovi materiali, robotica, intelligenza artificiale. Il tutto nell’ambito di mercati globali che si riassestano verso livelli di “globalizzazione selettiva”, cioè per aree continentali e per ambiti più delimitati.
Tutti gli attori in campo sono spinti, paradossalmente, più da fattori di debolezza che non da fattori di forza: Russia certo, ma anche Usa e Cina. Il groviglio più intricato, però, riguarda l’Europa. I paesi mediterranei, tra cui l’Italia, sono sempre più periferici. La Francia, che ha perduto pezzi interi della propria industria e ha visto peggiorare il proprio sistema educativo e ridursi la propria forza lavoro, ha oggi meno margini di manovra. La Germania, il cui modello di base è fondato sull’industria del carbone e su settori inquinanti come l’auto e la chimica, deve contrastare la sua alta dipendenza dal gas russo e al tempo stesso ricalibrare intere filiere produttive e catene di subforniture – in cui è elevata la presenza dell’Italia – altamente proiettate verso Est e verso la Cina, sulla scia della pur geniale Ostpolitik di Willy Brandt.
A maggior ragione l’Europa mantiene un ruolo fondamentale da svolgere, a dispetto di tutte le sue contraddizioni, esitazioni, arretramenti. Non vanno sottovalutati lo spirito rivoluzionario che ha animato il Next Generation EU, le opportunità contenute nella rinegoziazione delle regole della governance europea e del “Patto di stabilità e di crescita”, la possibilità di dotare l’Europa di una fiscal capacity destinata a finanziare beni pubblici europei e di creare nuovi soggetti pubblici a scala europea che si dotino di un portafoglio di progetti primariamente nei campi della ricerca biomedica, dei Big Data, delle tecnologie per la transizione ecologica, della fissione nucleare a fini di pace.
Se è sbagliato vedere un ripristino facile e indiscusso dell’autorità statale ovunque – quando in realtà il ritorno dello Stato è molto irregolare, erratico, controverso, spesso piegato al servizio “predatorio” del capitale e dei poteri privati – è errato anche esprimere totale scetticismo sulla possibilità che le istituzioni pubbliche, soprattutto se a scala europea, siano in grado di identificare “missioni” innovative alternative a quelle scaturenti dai mercati e dalle imprese, compiendo schmittianamente atti di fede solo negli animal spirits shumpeteriani e nel potere come forza e come dominio e irridendo all’Europa che si ostina a ispirarsi alla “pace perpetua” di Kant e a raccontarsi come “potenza normativa”. Perché non si tratta solo di evitare che delle tecnologie sia fatto un uso distorto e antisociale in direzione degli armamenti e della guerra, si tratta di riuscire a dare vita alle condizioni per creare e inventare un’innovazione e un processo tecnologico completamente nuovi, orientati primariamente alla soddisfazione di bisogni sociali insoddisfatti e solo in via derivata alla generazione di nuove fonti di profitto.
La constatazione che il patrimonio valoriale sottostante all’Europa unita, benché crescentemente sottoutilizzato, non sia mai andato disperso e che anzi, quando attivato, ha consentito di generare fasi di eccezionale mobilitazione e maturazione civile deve spingerci oggi, nei tempi ardui della violenza e della guerra, alla sua riscoperta e al suo rilancio.
L’universalismo è scaturito dal paradigma rivoluzionario grazie all’Europa, che “è la prima civiltà – affermò Paolo Prodi – che ha concepito se stessa in modo dinamico e la storia come ‘rivoluzione’ permanente”.
Kant venne riconosciuto come il filosofo della Rivoluzione francese anche perché ne salutò le conquiste come “simbolo storico” di un cammino normativo che si voleva irreversibile, le cui chiavi sono universalità, individuazione, eguaglianza, inclusione, emancipazione. Oggi Habermas – elevando un inno all’apprendimento e alla maturazione intrinseci alla creatività umana – ci ricorda che le tracce di quel cammino non spariscono mai del tutto, anche in tempi bui, e riappaiono sempre nuovamente, ma i passi ulteriori spetta alla nostra immaginazione idearli e concretizzarli. |