Editoriale

Tutti giù dal carro

Tutti giù dal carroIl candidato sindaco del Pd a Roma Roberto Giachetti – LaPresse

Chi sale e chi scende dal carro del vincitore ha in comune la dote della velocità, del tempismo. Dalle trionfali elezioni europee del 40% a queste comunali dell’emorragia nelle grandi […]

Pubblicato più di 8 anni faEdizione del 10 giugno 2016

Chi sale e chi scende dal carro del vincitore ha in comune la dote della velocità, del tempismo.

Dalle trionfali elezioni europee del 40% a queste comunali dell’emorragia nelle grandi città sembra trascorso un secolo, e tira aria di un fuggi fuggi generale.

Finiti i tempi dei laudatores in fila alla porta di palazzo Chigi e del partito, quando davanti alla televisione assistevamo alle repentine metamorfosi renziane dei fu bersaniani di ferro, quando i cespugli d’ogni stagione erano pronti a fare da contorno al giglio magico.

Ancora all’inizio della campagna elettorale per le amministrative, i sindaci sicuri di farcela al primo turno sembravano contendersi il corpo del leader, felici di poterlo esibire ai loro aperitivi (le piazze sono passate di moda, solo i 5 stelle hanno osato chiudere la campagna a piazza del Popolo, premiati dalle urne).

Poi dopo la batosta del 6 giugno sembra iniziata la corsa a scendere dal carro. Ormai è una gara a tenere il presidente-segretario alla larga dai ballottaggi, e perfino lo stesso Renzi sembra volersi allontanare un po’ da se stesso (il giorno del voto sarà a Mosca da Putin).

Il severo prosciugamento dell’insediamento sociale del Pd, il rischio di perdere al ballottaggio, spingono i candidati sindaci di Torino, Bologna e Milano lontani dal premier. Quel suo ostinarsi a derubricare il voto locale per concentrarsi su quello del referendum costituzionale è stato un errore e per questo non lo vogliono accanto in questi ultimi giorni di campagna elettorale («Io non sono del Pd, sono un manager», così Sala in Tv).

Ieri lo hanno fischiato non i centri sociali, ma i commercianti riuniti nell’assemblea della Confcommercio, la pancia della piccola impresa familiare, una parte del ceto medio colpito dalla morìa delle saracinesche nelle città, fenomeno triste e evidente camminando per le strade di Roma.

Ma essere vittime della crisi (e della rendita che piuttosto che affittare a prezzi sostenibili preferisce bastonare il piccolo artigiano) non ha impedito ai commercianti di fischiare il premier sugli 80 euro, cioè di prendersela con chi ha stipendi che non arrivano ai 1500 euro al mese. E mentre l’assemblea rumoreggiava il capo dei commercianti affossava la sbandierata ripresa «senza slancio, senza intensità, senza mordente».

Questo governo non ci è mai piaciuto. Le sue riforme economiche (ieri sono scesi in piazza i metalmeccanici per il contratto nazionale di lavoro) segnano l’abbandono della difesa dei più deboli consegnati alle logiche del liberismo. Quelle costituzionali seguono la stessa filosofia con l’adeguamento del sistema parlamentare alla logica dell’assetto economico.

Tuttavia lo spettacolo della fuga generale dal leader che barcolla è solo l’altra faccia, un po’ indecorosa, della medaglia.

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